Per il filone: uniamo due generi musicali completamente diversi fra di loro. Una tendenza che ha conquistato via via sempre più proseliti, non v'è che dire, e non tutti con risultati ottimali, se è vero che per cucinare piatti d'élite bisogna conoscere bene gli ingredienti (sic... ut).
Gli emergenti, danesi, non-più-così-giovani Volbeat alzano con coraggio la posta in gioco. Basta dare un'occhiata al leader, il cantante e chitarrista ed onesto tuttofare Michael Poulsen - che del mediocre mediano (ex?) juventino condivide, oltre che il cognome, l'avrete capito, anche la nazionalità - ha i capelli brillantanati e con la scriminatura, l'abbigliamento da pianobar, la splendida voce: d'altro canto (giusto per rimanere in tema) è ricoperto di tatuaggi, con muscoli belli in evidenza. La tradizione e la forza, il vecchio ed il nuovo, la penombra ed il riflettore: per andare al sodo, il rockabilly ed il metal. Strano, vero? Eppure in "Rock The Rebel / Metal The Devil", seconda prova di una bella e giovane (fino ad ora) carriera, i caratteri pragmatici delle due correnti trovano il loro apice in un'armonia dell'equilibrio che poco riuscirebbe a far intravedere la profonda differenza di base nelle due attitudini. In altre parole, qui non si tratta del solito, triste colpo ad effetto per stupire e che, in sostanza, nulla lascia se non una profonda sensazione di vacuità (un nome a caso, quello dei Mars Volta): i ragazzi sanno cosa fare e, most of all, come farlo.
Già ai primi ascolti, infatti, si avverte bene un rapporto di complicità nei vari incastri delle undici canzoni che compongono il pacchetto. Non vi è, di fatto, una netta spartizione tra gli elementi, ma tutto è fuso assieme, si alterna, si mescola, s'inserisce. Pezzi in realtà estremamente semplici, sul piano strettamente compositivo - si potrebbe parlare di punk per il riffaggio elementare e la quasi totale assenza di assoli o, meglio, di sua applicazione: gli Hormonauts qui non c'entrano - ma dalla presa immediata, spesso trovano il loro sbocco ideale non tanto nel variare delle melodie o nel giocoforza di quello che, orrendamente, è stato definito come "Cash metal" (ma che è?!?), quanto proprio nella voce di Poulsen, a metà strada tra Frank Sinatra, Elvis ed il già citato Johnny Cash. Poderosa, piena di sfumature, talvolta enfatica ma il più semplicemente incantevole, si muove con disinvoltura dai fraseggi semi-acustici alle elettrificazioni improvvise, adattandosi con naturalezza al contesto. Ecco che "Mr. Ad Mrs. Ness", ricoperta da un arido afrore southern, sventaglia un riff dietro l'altro, salvo poi aprirsi in un ritornello alla Chuck Berry: "Devil Or The Blue Cat's Song", coi suoi handclappin', è velocissima e senza pause; l'apertura con "The Human Instrument" smista il pathos da crooner con le slide blues e le massicce detonazioni metalliche, immergendo l'ascoltatore in una sorta di compendio del rock'n'roll. "Sad Man's Tongue", infine, è l'episodio più ludico del lotto: sghemba apertura country alla Cash, progressivo slancio elettrico, batti e ribatti westernato e mulinante, con le pistole che fumano.
Non va, in ogni caso, dimenticato che, nonostante l'empasse della novità possa stordire per un attimo, i brani si evolvono su binari senza troppe pretese. Ossia, potete pure sbandierare i Volbeat come gruppo innovatore del decennio, ma non prendetela a male se verranno usati come colonna sonora della vostra prossima festa. D'altronde, come per effetto domino, qui la cerebralità si schianta da subito. "Radio Girl", overture come i cugini cattivi degli Hellacopters e pressante segmento centrale, è la descrizione di un'infatuazione Fifties giocata sui sedili anteriori di una "old Bett Betty Ford", mentre "The Garden's Tale", in coppia con Johan Olsen dei Magtens Korridorer, è una meravigliosa perla da lanciare al massimo volume lungo un'autostrada solitaria, con la voce di Poulsen ad inerpicarsi sulle sei corde e a risultare indiscussa vincitrice.
Solo verso la coda le melodie cominciano a sfumare, a confondersi nei diametri di una canzone sempre più pesante e meno indulgente a cercare il ritornello pacificatore. Il testosterone avanza a larghi passi sull'elegante signorilità d'altri tempi (la splendida "Soulweeper #2", ciò nonostante introdotta da un riff abbastanza dissonante) e straborda da tutti i pori, dalle casse, dalle pose, dalla foga. "A Moment Forever" strozza i Rage Against The Machine dentro un frullato ritmico di continui stop&go, ma è solo l'antipasto per il dulcis in fundo, il thrash furibondo di "Boa (jdm)", scaricato con furiosa perizia attraverso una squassante montagna di chitarre, in un assalto all'arma bianca che suona come un impossibile concerto dei Metallica di "Master Of Puppets" (o, meglio ancora, "Ride The Lightning") a Tupelo. Una dichiarazione d'amore più velenosa e sfiancante di una spina nel ventre: chi si emoziona ancora nel sentire una semplice distorsione apprezzerà di sicuro.
In patria sono già divenuti delle star: dite sia ora di cominciare a seguirli con attenzione anche in Italia? Unico sottofondo concesso all'ascolto, la puntina del giradischi che graffia i solchi di un vinile...
Carico i commenti... con calma