Questi sono epocali. Questi sono partiti con colonne sonore di film noir e sigle tv. Agli esordi, fine anni '70. Con le idee ben chiare. Alla ricerca di un suono libero da ogni cliché. Ogni brano un'energia e un'atmosfera unica. Ci provano e ci riescono al primo colpo. Synth-pop sovversivo. Melodie minime. Chitarre al galoppo. Riff micidiali. Urgenza punk. Frenesie percussive. Frustate digitali. Drum machine a-go-go e tastiere che fanno scuola nella new wave. La voce da crooner di Stan Ridgway che sublima il tutto.
Ogni descrizione è limitativa. Ahimè non rende. Questa musica va ascoltata. E non c”è miglior occasione per farlo di questo “The Index Masters”. Qui troviamo i primi due EPs del gruppo. Sei brani tra cui “Ring of Fire” un classico del leggendario Johnny Cash. Vivisezionato, elettrizzato, dilatato e assassinato. E poi “Can”t Make Love” con liriche che sembrano uscire dalla penna di Raymond Carver. Ma sono le dieci bonus tracks che spediscono dritto in paradiso quelli della Rykodisc. Ovvero il live set rimasterizzato di un loro gig d'assalto in una Università della California. Anno 1979. Pausa. Groppo in gola. Fuori il punk furoreggia. Al di qua dell'Oceano rabbia, nichilismo e odio. Ribellione e denuncia sociale. Al di là dell'Oceano sempre rabbia. Ma una rabbia lucida.
Teste parlanti a New York. Teste devolute ad Akron. Teste alienate a Los Angeles. Nei garage sottoterra. Schiacciati sul palco di un club. A suonare la propria visione del mondo. “La mia coscienza mi chiama al telefono. Penso al passato. Al presente. Al futuro. Ed è sempre lo stesso” proclama Ridgway nell'inedito esordio “End of a Era”. No Future! Anche nella città degli angeli. Ma qui i muri non si distruggono. Si costruiscono. Doppi muri nell”appartamento. Nel cervello. Per esorcizzare la paranoia. Wall of Voodoo, appunto. Stanze come prigioni. O rifugi. Solo segnali a distanza. Via etere. Zero contatti umani. Perché fuori non c'è più vita. E poi va tutto troppo veloce. A Los Angeles, città delle corporazioni. Dove l'unica cosa che ti viene chiesta è timbrare il cartellino. “Nessuna scusa. Nessuna eccezione. Timbra il cartellino adesso o fottiti” (Back in flesh, la migliore). A Los Angeles, città delle catastrofi. Simbolo di una metastasi sociale diffusa poi dappertutto. A Los Angeles i cinque voodoo costruiscono un muro feticcio.
Cinico testimone del proprio malessere. Il muro è cresciuto bene. “Dark Continent” e “Call of the West” sono due dischi che ancor'oggi sorprendono, soprattutto il primo. Il muro ha fatto breccia una sola volta. Il refrain killer di “Mexican Radio” si diffuse ovunque. Hit atipico per radio private. Per locali della nuova onda. Per jukebox dei Bar Mario di provincia. Poi il muro si crepa. Stan Ridgway ne costruisce un altro in un continente meno oscuro. Ugualmente magico. Ma resta indimenticato quel primo muretto. Quello dei momenti più crudi, dei sogni infranti, dei primi fuochi e dei primi vuoti. Quello che produce brividi solo a pensarci. Quello che ognuno di noi può ricordare o scoprire ascoltando un disco come questo.
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