Per chi colpevolmente non li conoscesse, i Wall of Voodoo sono stati uno straordinario gruppo new wave californiano di fine anni settanta e primi anni ottanta, uno dei più originali ed apprezzati in assoluto. Il loro nome resta legato a doppia mandata con quello di Stan Ridgway, primo originalissimo vocalist della band. A quei tempi la definizione “alternative” aveva ancora un significato forte, legato a scelte musicali coraggiose e poco convenzionali. Lavorando sullo stesso ipotetico filone ispirativo dei Devo, i Wall of Voodoo presero spunto dall’epopea western e dai film noir piuttosto che dalla fantascienza, come aveva fatto invece la seminale band di Akron. Quello che ne scaturì fu un suono innovativo, rigido e industriale ma profondamente umano. La musicalità quasi robotica venne a costituire uno sfondo vivido e pulsante alla voce semicatatonica di Stan Ridgway ed ai suoi inquietanti contrappunti di armonica. Dall’abbandono di Stan nel 1983, l’anno dopo l’epocale “Call of the West” e la loro apparizione davanti a più di 100 mila persone al US FESTIVAL di San Bernardino, i Wall of Voodoo dei fratelli Moreland continuarono comunque la loro parabola artistica. Con il nuovo vocalist Andy Prieboy, volto abbastanza noto nella scena wave americana degli eighties cercarono di re-inventarsi la band confermandone ed aggiornandone il suono. In parte ci riuscirono. Le scelte musicali divennero a tratti compromissorie, ma senza snaturare oltremodo la cifra stilistica del gruppo. L'elettronica si attenuò, diventando più un elemento materico di puro riferimento, mentre la chitarra di Marc Moreland trovò più spazio ed importanza. La musica in definitiva divenne più accessibile, sempre oscura e vorticosa, ma decisamente meno creativa.
Con Andy Prieboy alla voce i Wall of Voodoo diedero alle stampe due album di studio prima di eclissarsi definitivamente. Il loro epitaffio è rappresentato da un live poco conosciuto ed erroneamente poco considerato, “The Ugly Americans in Australia”, un disco tutto da riscoprire, a partire dalla magnifica copertina. Documenta fedelmente il loro tour del 1986 nel continente “down under”, dove ebbero un certo successo, sfiorando addirittura le vette delle charts nazionali con l’improbabile singolo “Do it again”, cover del celebre pezzo di Brian Wilson. Ebbene, non starò qui a paragonare questo disco con capolavori assoluti come “Call of the West” o “Dark Continent”. Il confronto non renderebbe giustizia ad un album che, a mio parere, sintetizza in maniera egregia la seconda era dei Wall of Voodoo. E per questo “The Ugly Americans in Australia” va riscoperto fuori dal contesto di smobilitazione generale nel quale fu generato e della sua pubblicazione postuma, che lasciò piuttosto indifferenti critica e pubblico.
Innanzitutto sfatiamo un mito. L’acquisto di Prieboy al posto di Ridgway non fu affatto un cattivo affare per i fratelli Moreland. Anzi, trovo che la sua nasalità beffarda sia in fondo molto coerente con il timbro baritonale del suo inarrivabile predecessore. Dal punto di vista strumentale, nel 1986 la band è nel pieno della maturità e sfoggia un’ottima padronanza dei propri strumenti, sicuramente maggiore di quella di inizio decennio dove suppliva con una forte carica provocatoria all’imperizia giovanile. “The Ugly Americans in Australia” è dunque un disco live pulsante e vitale, a tratti addirittura travolgente. Privati dei comfort da studio, i Wall of Voodoo affrontano coraggiosamente il vecchio materiale e stupiscono piacevolmente con quello nuovo. Valga per tutti lo straordinario recupero della spettrale “Ring of Fire”, celeberrima cover di Johnny Cash, ipnotica e rarefatta come nelle migliori versioni di Stan Ridgway. Quasi mi vengono in mente i Suicide di Alan Rev ma questa è tutta un’altra storia… Altra menzione è per l’irresistibile pseudopop di “The Heart Never Can Tell”, in apertura della seconda facciata, sempre in equilibrio fra suoni di matrice post punk, elettronica e richiami morriconiani. I sintetizzatori sono un pò ingombranti certo, ma la canzone funziona bene. Ottime sono anche le versioni dei “più recenti” cavalli di battaglia come “Far Side of Crazy” e “Wrong Way to Hollywood” e più che discrete le interpretazioni dei vecchi classici, “Red Light” e “Mexican Radio”. Quest’ultima è la canzone che più di ogni altra li fece conoscere anche qui da noi, una sghemba galoppata “di confine” che catturava lo spirito di quei giorni e di quei luoghi, lontani e affascinanti. “The Ugly Americans in Australia” è nel complesso un disco ricco di spunti interessanti che potrebbero lasciarvi ancora oggi stupiti. Nella versione su cassetta, che ancora conservo, ci sono due pezzi in più che vale la pena segnalare. Una “Pretty Boy Floyd” di Woody Guthrie, rivestita di una patina elettrica che finisce per rivitalizzarne lo spirito, ed una altrettanto valida “Grass is greener” che completa un quadro complessivo di canzoni in odore di Greatest Hits.
Il mio parere è che i Wall of Voodoo di Andy Prieboy avrebbero potuto guadagnarsi un futuro differente da quello che il destino gli riservò. In realtà, avevano appena fatto intravedere un certo potenziale ma le loro carte erano oramai tutte scoperte sul tavolo. E non sembravano già più quelli i tempi giusti per il rilancio di quel suono così naif ed inevitabilmente stravagante, punto di intersezione ipotetico tra elettronica ed americana. Nessuno prima e nessuno dopo di loro ci provò più, provate a trovarmi un solo nome che gli si possa accostare e non parlatemi di Calexico ed altre amenità varie. Quando venne a mancare anche il supporto del loro mentore di sempre, quel Miles Copeland che li aveva sostenuti con la sua I.R.S. fin dagli inizi, i ragazzi si arresero. Era la fine del grande sogno new wave americano al quale sopravvissero solo i R.E.M. e pochi altri che valga la pena ricordare…
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