A Giugno scorso si è celebrato, in sordina per la verità, il ventennale dalla messa on line di Napster programma di file sharing che rivoluzionò il mondo della musica e soprattutto mise con le spalle al muro (e il portafogli al verde) quasi tutte le case discografiche.

Per quanto pensassimo che finalmente la musica dal basso avrebbe vinto sulla musica da classifica, alla fine della giostra a perderci sono state più le piccole band che gli artisti affermati. Dalla polverizzazione del supporto fisico (si ok il ritorno del vinile ma andatevi a riguardare i dati di vendita AD 1999, fate due conti e sbiancate), di soldi intorno alla musica ne girano molti meno. A parte poche star pigliatutto, il resto campa appena. E allora, anche solo per sbancare il lunario, un musicista che deve fare? Incidere dischi e andare in tour. Una bulimia produttiva che attecchisce un po' ovunque, ma che nella California degli ultimi 15 anni sembra avere effetti maggiori di altri luoghi.

I Wand (giro Ty Segall, a proposito di produzione bulimica), ben rappresentano questa tendenza: sono al quinto disco in cinque anni. Mi sono spesso scagliato contro questa iperproduttività, perchè credo che la sovraesposizione abbia lo stesso effetto della sottoesposizione; ma i Wand, per fortuna/bravura, riescono nell'impresa impossibile di migliorare col tempo. “Laughing Matter” segue il bel “Plum” di 2 anni fa. Ora alzano ulteriormente la posta, con un coraggioso disco da 70 minuti, poliedrico esempio di psichedelia anni '10, fra Flaming Lips, primi Mercury Rev, Radiohead, Motorpsycho metà anni '90, krautrock d'annata e tanta personalità, che ovviamente non guasta.

Già basterebbe la doppietta iniziale per legittimare il costo del biglietto: “Scarecrow” procede sorniona e sognante, una architettura sbilenca sorretta da piano e batteria metronomica; “xoxo” pare uscita da “Ege Bamyasi” dei Can, fino a che non irrompono le chitarre dei Motorpsycho di “Angels & Demons At Play”mischiate con le trombe selvagge dei Mercury Rev.

Seguono riffoni hard-punk grassi e acidi (“Walkie Talkie”), cavalcate elettriche percorse da synth dissonanti (“Lucky's Sight”), pop song fra Deus e Radiohead pre “Ok Computer” (“Rio Grande”), arpeggi ipnotici senza inizio e fine, scossi da scariche di elettricità incontrollata (“Thin Air”), di nuovo i Motorpsycho di “Trust Us” ma con un piglio più melodico e un refrain indimenticabile (“Wonder”), oasi folk inaspettate (“High Planes Drifter”). Si permettono anche 9 minuti di soffice psichedelia post rock, con crescendo inesploso, in “Airplane”.

Disco che si chiude con un apocrifo dei Velvet periodo disco omonimo (“Jennifer's Gone”) che certifica la poliedricità del leader Corey Hanson, oltre che il crescente talento musicale.

Nella personale top 3 dell'anno.

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