Parlare dei Warlord equivale a parlare di epic metal, quindi bisogna chiarirsi subito su cosa sia questo genere. Infatti molti non hanno bene a fuoco la questione e sbagliano; l’errore di solito porta a disprezzare e a parlare male, ma è comprensibile perché se si crede che il metallo epico sia quell’allegro, sprizzante, zuccheroso, sinfonico, elfico e gaio power metal crucco, italico o finnico che spopolava a cavallo del cambio di millennio si è giustamente giustificati.
Innanzitutto l’epic metal è heavy metal, ma cosa lo distingue dal metallo classico? Solamente la sensazione che prova l’ascoltatore, non c’è dunque una netta demarcazione ma un labile e volubile distinguo. Quindi gli Iron Maiden sono epic? No. E i Warlord? Sì. I Manowar? Sì ma solamente nei primi quattro album, poi non più. Sono epic invece i Cirith Ungol, i Manilla Road, gli Omen e i Medieval Steel. Non sono epic i gruppi NWOBHM e quelli power americano anni ’80. I Sanctuary sono epic? No, mi dispiace. Però Battle Angels spacca! Lo so che ci vuoi fare. Per alcuni sono epic i primi Queensrÿche, per altri i primi Candlemass, che tutto il mondo considera tra i pilastri del doom. Anche i Bathory del periodo viking vengono presi in considerazione. Come mai tutto ciò?
Forse perché l’epic nasce dalla mancanza e dalla malinconia. Non è un caso, secondo me, che di fatto sia un genere americano, con americani che narrano le gesta di achei, ateniesi e spartani, di cavalieri medievali e rozzi barbari, insomma di un passato glorificato che non appartiene loro, apparteneva ai loro avi migranti, a loro non più. Questo senso di perdita si trasforma in una malinconia di fondo che permea tutte le canzoni, sia che siano veloci e magniloquenti, come i Warlord, sia che siano lente ed oscure, come i Cirith Ungol, oppure che possiedano un po’ tutte queste caratteristiche, come i Manilla Road. L’epic guarda al passato, vive nel passato, non è autoreferenziale, è sommesso e triste. E i Manowar allora? Sono sicuramente il punto di riferimento dell’edonismo e dell’autoesaltazione, però a ben vedere agli inizi la cosa non era esagerata, è solamente dal quinto album in poi che diventano i pagliacci che tutti conoscono, prima un minimo di contegno ce l’avevano.
Agli europei per contro l’epic non è mai riuscito granché, Quorthon a parte, ma pensandoci bene i Bathory sono tristi perché soffrono per la morte di quella che considerano la cultura scandinava, ad opera dei cristiani, dunque sempre di perdita in un lontano passato si tratta. Non si può dire lo stesso di Rhapsody, Hammerfall e compagnia pauereggiante, al massimo loro potrebbero aver perso le carte di Magic.

Dopo questa estenuante ma doverosa introduzione veniamo al disco con cui i Warlord tornarono a farsi vivi nel 2013, dopo un decennio circa. La prima sensazione che si ha durante l’ascolto è che l’album sembra essere uscito dagli anni ottanta, con due canzoni composte a tutti gli effetti in quella decade, come se il chitarrista William Tsamis avesse ritrovato una vecchia registrazione riordinando la soffitta, la produzione è volutamente all’antica, cosa necessaria e obbligatoria (Nuclear Blast vade retro!), ed lo stile del gruppo è rimasto pressoché immutato, le solite melodie sognanti e ariose, tranne per il fatto di procedere con il freno a mano molto più tirato, come se ormai non ci fosse più l’urgenza di dimostrare la propria bravura e la propria energia. La prestazione del cantante è rivolta tutta in questa direzione, risulta infatti di una pacatezza spiazzante, mai sopra le righe, e trasmette serenità e sensazione di pace dei sensi, un nuovo equilibrio spirituale raggiunto con la saggezza dell’età. Tutto l’album da l’impressione di immutabilità e di estraniazione dal tempo, come in quei racconti dove qualche esploratore scopre un’antica civiltà immutata da millenni che vive ai confini del mondo. Sempre uguale a se stessa.

Concludendo si può dire che questo è stato l’album perfetto per i Warlord, nell’ormai già lontano 2013, un ritorno molto gradito che pone l’interrogativo sul futuro: torneranno, emergendo dalle antiche sabbie del tempo, per continuare la propria opera di bardi e menestrelli?

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