Mi è ricapitato fra le mani questo blockbuster del 1990, capace all'epoca di sbancare i botteghini di mezzo mondo con pubblicità e promozioni di ogni tipo e di finire dimenticato al giorno d'oggi.
"Dick Tracy", personaggio nato nei fumetti di Chester Gould quando correva l'anno 1931, rivive qui nella sua ultima (ad oggi) apparizione cinematografica grazie a Warren Beatty, che oltre a dirigere l'opera presta anche il volto al detective dalla mascella quadrata. Così come il fumetto, il film è ambientato in un'immaginaria metropoli dell'East Coast statunitense negli anni del Proibizionismo: Dick Tracy, incorruttibile ed onestissimo detective da sempre e per sempre al servizio della giustizia, lotta praticamente da solo contro le organizzazioni criminali che controllano la città, capitanate da Big Boy Caprice (un Al Pacino grandissimo in tutto, fuorchè nella statura). Sulla strada verso l'ovvio lieto fine, Tracy dovrà fare i conti con un ragazzino orfano e vagabondo (un Charlie Korsmo all'epoca sulla cresta dell'onda) che prenderà in affido, con le preoccupazioni dell'innocente ed eterna fidanzata Tess Trueheart (Glenne Headly) che tanto vorrebbe una promessa di matrimonio, con la pupa del boss Breathless Mahoney (Madonna) che cercherà di sedurlo e con l'enigmatico The Blank, un uomo senza volto che non si capisce bene da che parte stia.
Il Bene in perenne in lotta contro il Male, così come vuole l'America; la distinzione fra le parti è netta e sottolineata anche dalle caratteristiche fisiche dei personaggi, che qui (esattamente come nel fumetto) diventano espressione dell'animo interiore. Se Dick Tracy è di fatto bello, atletico e forzuto, i gangster che lo contrastano sono invece caratterizzati da profili fisici mostruosamente deformi: dalla testa a forma di incudine di Flattop (in italiano Zuccapiatta, interpretato da William Forsythe), che su carta era uno dei nemici principali del detective, al viso molle e completamente ricoperto di rughe di Pruneface (qui Il Grinza, R.G. Armstrong), dallo smilzo e cadaverico Influence (Henry Silva, quello de "La mala ordina") al contabile Numbers (James Tolkan, ricordate il preside di "Ritorno al Futuro"?). Anche Big Boy non è esente da questo quadro pittoresco, essendo rappresentato come un ometto ingobbito e dall'aspetto più simile ad un nano da circo che ad un grande capo criminale, Big Boy che tesserà ogni piano diabolico per impossessarsi della città ed eliminare il suo acerrimo nemico il quale, ovviamente, avrà sempre un asso nella manica o un aiuto insperato per cavarsela. E il Bene alla fine trionfa sempre. La recitazione magistrale di Al Pacino (qui candidato all'Oscar nell'anno in cui vinse Joe Pesci per "Quei Bravi Ragazzi") mostra come si possa tenere in piedi un film praticamente da soli: se è quasi sempre vero che i cattivi sono più interessanti dei buoni, in questo caso è vero anche che la parte buona del film è totalmente senza spessore, Warren Beatty manca troppo spesso di ironia e lascia completamente la scena ad Al Pacino, la cui grandezza come attore viene sempre ricordata attraverso pellicole come "Scarface", la serie de "Il Padrino", "L'Avvocato del Diavolo" o l'assoluto capolavoro "Carlito's Way", ma provate a guardarlo qui, quasi irriconoscibile per via delle 4 ore di seduta di trucco a cui doveva sottoporsi prima delle riprese, guardatelo mentre sbraita la propria mania di grandezza in faccia a chiunque, mentre ironizza (lui sì) su tutto e tutti, mentre con un'espressione ad occhi spalancati ti ripaga tutto il prezzo del biglietto. Ruolo insolito, ma risultato divino.
"Dick Tracy", anche se spacciato come film per famiglie, contiene molta più violenza di quanto non sembri, solo che viene filtrata da ritmi da commedia e dalla sdrammatizzazione delle situazioni operata dai personaggi. In sostanza, comunque, il film è poca cosa, confuso e discontinuo, un inizio di grande ritmo si perde ben presto in più di un momento morto e Madonna (che all'epoca se la faceva con Beatty) è espressiva quanto una sedia, tuttavia viene salvato dalla prova magistrale di alcuni suoi solisti: oltre al già citato Pacino, Dustin Hoffman offre una divertente performance interpretando Mumbles (Borbotto), un gangster singolare che si muove un po' dietro le quinte, Paul Sorvino è Lips Manlins (Labbra) mentre James Caan veste i panni di Spaldoni (anche se purtroppo salta in aria dopo pochi minuti). Particolare per la fotografia di Vittorio Storaro, che utilizza solo i colori primari dei fumetti, il film vise tre Oscar: "Migliore canzone" ("Sooner Or Later" scritta da Stephen Sondheim e cantata da Madonna), "Migliore scenografia" e "Miglior trucco". Al di là di tutto, piacevole.
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