Ancora una volta con sentimento, riportato a un entusiasmo a sprazzi ventenne con la poca voglia di sempre: per ribadire il concetto sempre molto caro di urgenza, che alcuni dicono immediatezza, ma a me pare in qualche modo svilente (perché i/gli Washer sono un cerchio perfetto, ma pieno di spigoli). Anche per ritrovare tra gli arpeggi rassicuranti e gli scostanti fraseggi sui quali si adagia questa voce del cazzo, di naso, monotona, la via più sicura verso casa, un ascolto fraterno, perdente eterno che un tempo non ci vergognavamo di descrivere slacker, in ogni tempo surclassato da qualcosa di più certosino, ammiccante, affilato, tronfio, Jeff Rosenstock.

Pare doveroso ascrivere la formuletta all'alternative chitarristico americano confusionario dei tardi novanta, non privo di parabole violente, più famiglia Kinsella che Wilco, concentrato sulle melodie e di semplici dinamiche, rette solo dall'inseguimento pigro di basso e batteria e nient'altro (pigro, o stanco: si percepirà a tratti una zoppìa affatto vezzosa); neppure priva, come nell'episodio più d'impatto The Waning Moon, di tentazioni garage o surf e ritornelli\sfogo che per chi scrive trovano l'apice nell'inno anti-inno Fail Big, bagliore nello scenario già avaro di uscite degne, figurarsi di canzoni.

Fallisci in grande: un manifesto tardivo.

[Si rimanda per approfondimenti al caro Kloo su queste pagine. Sono lieto di ritrovare i ragazzi dolci e tristi di sempre, sempre per le loro, sempre tutto sommato tutto bene. Spero altrattanto di voi.]

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