Di band semi sconosciute o quasi leggendarie che non sono riuscite a ritagliarsi uno spazio nel mondo del metal, ce ne sono fin troppe, ma questa è una band (che ci crediate o meno) che rappresenta l'embrione di un intero movimento: il progressive metal. Se si pensa alla tecnica unita al metal, il primo gruppo che a quasi tutti (almeno per popolarità) viene in mente sono i Dream Theater, ma molto prima di loro, esattamente nel 1982, a Austin (Texas) nascevano i WatchTower. Chiamiamoli con il loro nome, cioè pionieri; perché furono i primi a fare “techno, jazz, speed metal” come definisce il loro genere il cantante Jason McMaster o più emplicemente l'embrione del progressive metal. Un fulmine a ciel sereno, una tecnica spaventosa dei 3 strumentisti, il chitarrista Billy White, il batterista Rick Colaluca e il bassista Doug Keyser, unita ad un cantante dalle grandi doti che utilizza un cantato in costante screaming per quasi per il 90% delle canzoni. A tratti il suo stile somiglia a Rob Halford, suo grande ispiratore, ma in effetti la somiglianza si annulla, all’orecchio dell’ascoltatore che viene catturato dalla velocità e all’arrembata delle composizioni di questo album che porta la data storica di uno degli anni più importanti per il metal il 1986.
Partiamo dal titolo Energetic Disassembly non è altro che un termine governativo (USA) per indicare la detonazione di una testata nucleare e la title track, come ovvio, è incentrata sul nucleare e sul fatto che un minimo sbaglio potrebbe far scatenare una guerra nucleare che porterebbe alla distruzione di massa di tutto il genere umano e garantirebbe un futuro immerso nel grigiume e nell’oscurità con danni permanenti alle popolazioni. Tutti gli altri testi trattano pressappoco dei medesimi argomenti sottolineando il ruolo dominante del potere (Governo) e della possibilità reale di un olocausto nucleare. In quegli anni i rapporti tra Usa e l’attuale Russia non erano dei migliori e tirare fuori certi argomenti non fu certo facile per l’attualità degli argomenti stessi (per l’epoca), in più si distaccano dai tipici “argomenti” delle tipiche speed/thrash metal band cioè sesso, droga, morte, sangue, ecc. Lo speed/thrash è di fatto la prima collocazione musicale che viene spontaneo dare a questa band, durante un primo ascolto superficiale si scatterebbe subito in un feroce headbanging, ma già al secondo ascolto si inizia a capire di essere di fronte a qualcosa di più che un album thrash. Che cos’è quel “qualcosa”? E una caotica serie infinita di cambi di tempo e di parti ritmiche impossibili con sovrapposizioni dei tre strumenti da far venire i brividi per la perizia e la precisione nei passaggi. Passaggi talmente tecnici che reggono il confronto solo con quelle band che hanno fatto della tecnica (mai fine a se stessa) una delle loro ragione di vita. I già citati Dream Theater sono solo un esempio (e sono venuti dopo), ma si potrebbero tirare in ballo i Rush, dai quali i nostri ritagliano spesso molte loro parti ritmiche e, velocizzate, le inseriscono nelle loro composizioni. Una delle definizioni più allegoriche dell’epoca era “What if Metallica recorded 2112” oppure "Rush at 200mph". L’idea è quella. La sezione ritmica si rifà molto ai primi lavori dei Rush e la velocità delle composizioni è molte volte paragonabile (se non superiore) a Kill’em all. Nonostante questa fusione (o forse per colpa di questa fusione) al limite del possibile, i WT non ricevettero il meritato successo da questo loro modo unico (per gli anni ’80) di suonare metal. Anche adesso troverebbero molti muri, infatti i loro assoli ipertecnici intrecciati chitarra/basso/batteria ognuno per i fatti propri, fanno diventare l’ascolto molto problematico. Non nascondo che mi ci sono voluti molti ascolti per digerire questa pietanza, nonostante io sia un grande appassionato di thrash estremo nonché sempre alla ricerca di band super tecniche e sperimentali (tipo Celtic Frost, per intenderci). Di certo i puristi del genere prog metal direbbero che i WT suonano in modo così tecnico per una sterile e fredda dimostrazione di bravura, ma all’epoca erano dei ragazzi giovani e il loro unico scopo era quello di andare il più veloce possibile nel modo più aggressivo, il resto uscì dalle loro teste (e dai loro studi di musica) in modo spontaneo.
L’aggressiva unicità delle composizioni fa si che questo album non abbia momenti di stop o di tranquillità. Si parte con Violent change e si viene subito travolti da una sfuriata thrash molto veloce e abbastantaza “semplice” tecnicamente rispetto al resto dell’album; ci fa però già capire quali saranno i binari su cui correremo per i prossimi 37 minuti. Riffs tiratissimi e cantato aggressivo con una grande sezione ritmica, l’antipasto si presenta bene, ma è solo l’inizio.
Dopo una breve introduzione in crescendo, le urla di Jason ci accompagnano ad una delle migliori composizioni dell’album, un riff iniziale favoloso supportato dalla sezione ritmica ci portano subito alle velocità già esplorate con la opener, la voce è sempre in controllato screaming; poco oltre la metà, sentiamo il primo break di basso che spezza i ritmi per poi riportare Asylum sulle alte velocità iniziali e per poi chiudersi in un lampo.
Eccoci ad una perla di tecnica. Uno degli inizi di canzone più entusiasmanti che io ricordi; nulla di sentito prima, con i nostri che iniziano a mostrare le loro grandi doti di musicisti con marcatissima tecnica jazzistica che denota anni di studi dei rispettivi strumenti (tra l'altro Keyser era un chitarrista poi convertitosi al basso). Ma a metà canzone veniamo travolti da un assolo di chitarra, con basso e batteria come “tappeto”, che lasciano annichiliti. Come per le precendenti anche in questa Tyrants in distress, abbiamo più d’un break musicale seguito da accelerazioni.
Passiamo a Social fears che sembra debba partire lenta e cadenzata e che, anche se non veloce come le precedenti, resta sugli stessi standard in quanto a tecnica esecutiva, e come le precedenti ci lascia un altro assolo eseguito con grande perizia dal solito White (anche se non a velocità siderale) e una sezione ritmica instancabile.
Arriviamo alla title track oramai abituati a ciò che ci aspetta, ma ecco subito quello che non ti aspetti: i nostri mettono in campo nel primo minuto una introduzione "jam" (che retornerà nel finale di canzone) di grandissimo valore artistico seconda solo al resto della canzone, che ci porta ancora più in alto nel livello tecnico e che ci fa iniziare a dubitare sul fatto che questi mostri siano umani. Tutto da ascoltare l’assolo di basso e il seguente assolo di chitarra a 3/4 di canzone. I cambi ti tempo non si contano più, ma adesso si passa ad qualcosa di veramente unico.
Argonne forest è quella che ritengo la migliore canzone (a livello puramente personale) delle 8, si inizia con un’altra "jam" di impareggiabile valore (anche questa si ripete poi verso il finale di canzone). Il corpo di Argonne forest è la “(in)solita” sequenza caotica di cambi di tempo e ritmi assurdi, assoli di chitarra e basso, con la batteria che macina cambi di ritmo vertiginosi.
I ritmi scendono leggermente con la successiva Cimmerian Shadows, ma la bravura dei texani si riconferma tale. Il riff di chitarra è trascinante ed il cantato molto più “normale” e meno scream (almeno all’inizio della canzone), per un attimo tocchiamo lidi più umani, ma a metà canzone si ritorna a sentire un’altra jam da brividi e un altro assolo di chitarra da ricordare e sul finale ancora il basso a farla da padrone, ancora bravissimi.
Eccoci arrivati alla fine di questa (rin)corsa, Meltdown ci porta alle velocità più alte dell’album con ritmi ancora più forsennati e cambi di tempo sempre curatissimi, con i fraseggi basso/chitarra/batteria, i consueti break e successive accelerazioni ed il consueto e spettacolare assolo di chitarra (in realtà sono due di pari valore). Certamente la più “orecchiabile” del lotto (per quanto possa essere orecchiabile una canzone del genere).

Per concludere ci troviamo davanti ad un album unico nel suo genere e ad una band che ha fatto da ispirazione a tutto il movimento techno thrash nonché ai grandi Death e a molti altri. Una sezione ritmica con uno dei migliori batteristi mai sentiti nonché uno dei migliori bassisti mai sentiti, un chitarrista (non il migliore al mondo) che potrebbe stare tranquillamente in quell’angolo dove sostano i vari Satriani, Vai, Malmsteen, Petrucci e pochi altri ed un cantante dalle grandi doti che si sposano perfettamente allo stile aggressivo della band. Unica pecca di questo capolavoro di valore assoluto, è una produzione decisamente deficitaria, sintomo di pochi soldi in tasca dei texani. Questo è uno di quegli album destinati ad un pubblico di nicchia, un album da ascoltare e riascoltare per poterlo apprezzare in modo completo. Un album relegato purtroppo nell'underground storico mondiale, ma che è senz'altro il primo esempio di prog-metal.
Alla fine di tutto questo viene solo da chiedersi: “ma dove sono finiti?”

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