Wayne Shorter è sulla scena del jazz internazionale dal 1958, ha attraversato l'era del hard-bop con Art Blackey, ha suonato negli anni '60 col mitico quintetto di Miles Davis, collaborando anche al rivoluzionario Bitches Brew, ha attraversato i '70 alla guida con Zawinul dei Weather Report, gruppo di punta del panorama fusion, nello stesso periodo si è aperto alle altre culture musicali soprattutto sudamericane; negli '80 ha sperimentato con successo l'uso (a volte esasperato), della tecnologia dei sintetizzatori, e si è spinto alla ricerca della melodia pura, cosa che lo ha portato a collaborare con Milton Nascimento e col nostro Pino Daniele (che brutta fine che ha fatto), per non parlare delle varie collaborazioni estemporanee che ha instaurato in tutti questi anni, da Joni Mitchell a Petrucciani, Hancock ecc. ecc.
Tutto questo perché Wayne Shorter è un jazzista. E il jazz non è un genere, tanto meno uno stile, ma un modo di approcciare la musica con curiosità intellettuale e senza pregiudizi, alla ricerca di una sua magari effimera “essenza”.

Forse è un po' esagerato dire che Alegria rappresenti la summa delle esperienze di tutta una vita, ma senz'altro siamo di fronte ad uno dei lavori secondo me più sentiti del sassofonista di Newark.
Questo per via della scelta di un organico ampio, che è una novità per Shorter, avendo sempre prediletto delle formazioni più piccole. Si badi però, non siamo di fronte al classico disco “solista+big band”, l'uso degli ottoni, dei legni e degli archi è sempre misurato e mai pervasivo, si percepisce sempre un'attenzione particolare al risultato timbrico dell'insieme. Il quartetto è quello solito di questi ultimi anni, Patitucci, Blade, Perez, al quale sono affidati comunque tre pezzi senza l'ausilio di altri strumentisti.
La scelta dei brani pesca dal sia dal repertorio misconosciuto del compositore (Sacajawea, Angola, Orbits e Capricorn II), sia dal songbook nord-americano (Serenata di Leroy Anderson e Vendiendo Alegria di un certo Joso Spralja, emigrante dalmata in Canada), sia dal tradizionale, che dalla musica “colta” (Bachianas Brasileiras n°5 di Villa-Lobos). L'originalità sta tutta nella veste che Shorter dà a questi pezzi in sede sia di arrangiamento che di esecuzione. Lo stile è inconfondibile, gli arrangiamenti sono pervasi da quel senso di mistero che accompagna il sassofonista sin dall'inizio della carriera, ma non c'è niente di buio e imperscrutabile, piuttosto si percepisce una specie di magia, un mistero rivelato che fa coesistere diverse forme musicali all'interno di un unico discorso (e non è facile da spiegare eh...).
Il solismo di Shorter (che tra l'altro è l'unico a fare assoli in tutta l'opera), si è fatto ancora più forte, se così si può dire, di un lirismo delineato con poche limpide pennellate, ogni nota è voluta, cercata, le linee dei soli sono pervase da un forte senso melodico, a volte ipnotiche, magiche, insomma Wayne Shorter...
Da sottolineare infine la presenza di Terri Lyne Carrington alla batteria in alcuni brani al posto del fido Brian Blade, e del grande Alex Acuna alle percussioni, che contribuisce non poco a creare quel certo sound “ancestrale” che si percepisce in tutto il disco.

Questo lavoro del 2003 può essere senza dubbio annoverato tra i capolavori del jazz degli ultimi anni, la nota dolente è che Shorter ha ormai abbondantemente superato la settantina, ed è dubbio che riuscirà a dare degli scossoni a un jazz che pare accartocciato su se stesso a rincorrere stilemi ormai vecchi, anche se suonati da “giovani leoni”. Sarebbe banale chiudere con “un disco che non può mancare nella collezione di chiunque sia un appassionato di musica”, io mi limito a sperare che lo ascolti bene chi sia, o creda di essere,alla ricerca di un punto di partenza per comprendere quell'universale culturale che noi umani chiamiamo Musica.

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