Né jazz, né rock, né jazz-rock, fusion, cross-over, o altre etichette inutili e banali, questi sono i Weather Report, la loro è la musica dei Weather Report.
La prima volta che ascoltai questo disco rimasi letteralmente con la bocca aperta: "Ma che sul serio dal vivo questi suonavano così?", e sì, perché una cosa del genere non l'ho più sentita da nessuno.
L'energia profusa in questo disco è totale, la tecnica impressionante dei musicisti che vi suonano è totalmente indirizzata al risultato, le composizioni sono uniche nel loro genere, l'interplay è fantastico.
Dopo il successo di vendite di "Heavy Weather", Zawinul e soci si prendono il lusso di organizzare e autoprodurre un tour mondiale con un impiego di mezzi degno di un gruppo rock da botteghino (megascreen, laser ecc.), riempiendo i palasport con una musica mai banale o troppo indulgente col pubblico.
Siamo nel '79, molto prima dell'era MIDI e dei computer sul palco, ma Zawinul riesce a tirar fuori dei suoni, dai suoi synt abbastanza primitivi, di una bellezza unica, ancora adesso credo un punto di riferimento per ogni tastierista che si rispetti. I pezzi sul disco sono quasi tutti i suoi, e rivelano le sue origini jazzistiche, la sua passione per la musica etnica (quella vera), per i compositori del '900 europeo, per il rock, il tutto tenuto insieme da una sensibilità unica e da un gruppo superbo.
Gli altri musicisti sono l'indiscusso Jaco Pastorius, il più grande bassista mai vissuto, secondo me qui all'apice della forma (più tardi la malattia e l'abuso di alcol e droghe lo porteranno ad una morte assurda). Basti ascoltare il suo pezzo forse più famoso presente nel disco, Teen Town, per capire di chi stiamo parlando: a parte il tema interamente affidato al basso (una rivoluzione), il riff che Jaco suona nella sezione del solo di Wayne Shorter è semplicemente incredibile. Un genio.
Alla batteria c'è il grande Peter Erskine, perfettamente complementare a Pastorius, versatile, preciso e potente, per averne un'idea basta ascoltare Badia/Boogie Woogie Waltz considerando che non usava il doppio pedale per la cassa.
E poi Wayne Shorter, già una leggenda del jazz all'epoca, sempre lirico, a suo agio anche nei groove infernali prodotti dalla ritmica, col suo suono potente e pulito, il suo fraseggio poetico sempre, ascoltare per credere la ballad A Remark You Made: il Suono del sassofono tenore, mentre la sua intonazione al soprano fa dannare chiunque si accosti a questo strumento, per non parlare del linguaggio che ha sviluppato su questo tubo di ferro, che è praticamente inarrivabile.
Insomma un disco bellissimo, denso, energetico, puro.
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