Il deserto è una delle cose più forti che ho mai vissuto. Il deserto ti parla. Il deserto ti chiama. Il deserto non perdona. La bellezza del deserto è ammaliante. Ci sono stato alcuni mesi nel deserto qualche decennio fa, nel deserto vero, nello Yemen, da Marib (città che è stata capitale del regno di Saba) altri 100 km. dentro il nulla. Se la strada da Sana a Marib è godibile per gli altipiani stile Canyon, da Marib a dentro la fornace di sabbia il paesaggio è sconcertante, inizia un deserto piatto, non ci sono dune, piatto. Io ci sono capitato per lavoro, come montatore, d'inverno, 50° all'ombra, la notte si sfiorava lo zero... La sabbia peggio dell'acqua, entrava dappertutto. C'è stata una tempesta di sabbia, non si può capire che cos'è se non si vive, dico solo che pregavamo.
In un calore irreale quasi solidificato i miraggi c'erano in ogni momento, tutti vedevamo le stesse cose, tutti: costruzioni che ondeggiavano nel calore distorcente, Fata Morgana, persone, entità, altre cose... I miraggi erano tangibili, ci si diventava amici. Un giorno fissavo un punto ignoto e in trance ho iniziato a camminare verso "il centro del deserto". L'Arabia Felix chiamava col silenzio delle Sirene. Dopo un chilometro m'avvedo e mi scrollo di dosso quel magnetismo pensando che per cena avrei voluto una Simmenthal. Oggi sono vegetariano, ma sono vivo per una scatoletta di carne. Come mi sentivo bene là in mezzo, da solo, dove il silenzio ti disintegrava più del caldo, dove non pensavi più al tuo corpo, dove l'accettazione del distacco ti apriva a "vedute sul mondo reale".
Herzog, in questa testimonianza di un rincorrere una sofferenza cosciente, apre su queste vedute, spietatamente. Si "offre", rischia la morte in più occasioni, la morte lo rifiuta: l'impersonale le è indigesto, la morte è carnivora. La camera armeggiata dall'amico Jörg Schmidt-Reitwein fa luce sull'essenziale, sull'invisibile. Werner guida l'auto(ipnosi) in catalessi, e scorre su una retta di un dolly infinito. L'eterno ritorno decolla nel dejá vu di un atterraggio derviscio, looppa dalla fine all'inizio.
Le apparizioni di esseri umani accendono una meraviglia assente, si filma il teletrasporto di sensazioni, si pesano delirî, si falsificano normalità inesistenti, si mette in crisi lo scopo della presenza in questa dimensione con quell'orchestrina assurda pianoforte-batteria (e voce pernacchietta) che, verso la fine del film, innesca le definitive allucinazioni. Onesto Herzog, non pretende di essere semplice e strizza l'occhio a quell'inamovibile che non cogliamo.
Reportage psichico del "viaggio", Werner coglie nell'annullamento di una sfida duale il compenetrare dello stato delle cose, cristallizzato magicamente sulla pellicola. Ed è magnifico vedere il fermare il tempo che ci fa galleggiare nell'immediato. Sentiamo addosso, come fossimo lì, tutto il flusso della materia mettendoci la pulce nell'orecchio che un viaggetto nel tempo si può fare con strumenti inaspettati. La resa "concreta" dell'opera bascula in un'assenza pesante girando il dito nella piaga delle nostre illusioni: che sia il miraggio la luce più vicina alla verità?
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