Febbrile pellicola di Werner Herzog e del suo attore feticcio Klaus Kinski, "Fitzcarraldo" (1982) esplora l'America latina, ed il dualismo fra natura e cultura, in maniera apparentemente meno tragica ed ossessiva, ma più spettacolare, del precedente capolavoro del duo ("Aguirre Furore di Dio", 1972).
Riassumo, come sempre in maniera sintetica, la trama del film: Brian Sweeney Fitzgerald, detto dalla popolazione locale "Fitzcarraldo", è un appassionato melomane, con il sogno folle di creare un teatro d'opera lirica a Iquitos, città brasiliana nel cuore dell'Amazzonia. Per realizzare il proprio progetto, partirà alla conquista una sconosciuta regione dell'Amazzonia, i cui prodotti faranno la fortuna dell'economia locale. L'unico modo per giungere a questa terra è quello di risalire un fiume, valicare una montagna, ridiscendere la valle, e quindi fare ritorno in città discendendo un altro fiume: il tutto - compreso il valico - a bordo di un enorme battello.
Tralascio, in questa sede, ogni riferimento alla tormentata lavorazione del film ed alle suggestioni ispirate dal lungometraggio, specie con riferimento al famigerato valico del passo amazzonico da parte del battello di Fitzcarraldo, effettuato veramente dalla troupe di Herzog, con perfetta identificazione fra regista e protagonista, linguaggio cinematografico e metacinematografico.
Mi concentro, piuttosto, su alcuni profili salienti della storia, utili per una sua ennesima interpretazione che potrebbe essere gradita ai lettori di DeBaser.
Mentre in "Aguirre" l'uomo, attratto dai sogni di ricchezza e potere, si perdeva nella foresta amazzonica e smarriva, contemporanemante, ogni equilibrio psicologico e morale, giungendo a distruggere i propri simili ergendosi follemente a messia degli dei in una terra maligna e nemica, in "Fitzcarraldo" il viaggio del protagonista è altrettanto folle e visionario, ma funzionale ad un progetto concreto e reale, oltre che intrinsecamente poetico. Non vi è dunque, in questo film, quell'immedesimazione "panica" - e foriera di "panico" ! - fra "uomo" e "mondo" che si ravvisava in Aguirre, quanto piuttosto una scissione fra percezione soggettiva (le passioni di Fitzcarraldo) e mondo oggettivo (il fiume, il monte, la terra, le cascate) sulle quali il protagonista esercita il suo potere.
Fitzcarraldo non si fonde, infatti, con la natura ostile, regredendo come Aguirre a "Homo homini lupus", ma "agisce" sulla natura con la propria "tecnica", perseguendo lo scopo - peraltro, profondamente borghese - di diffondere l'Opera lirica, e la stessa cultura europea, in un luogo visto e percepito come "selvaggio". Mentre Aguirre si presentava come una divinità terrena, Fitzcarraldo sembra, piuttosto, l'apostolo di una certa idea di cultura, di modernità, di europeismo, contrapposta al mondo amazzonico. Che poi i valori del protagonista siano "ideali", e talora in contrasto con la realtà delle cose, essendo sottile il crinale fra mondo evoluto e mondo selvatico, è tema sul quale si potrebbe scrivere per anni...
In conclusione, mentre in Aguirre, al pari del successivo "Apocalypse Now" di F.F. Coppola (1979), e dello stesso modello letterario di J. Conrad ("Heart of Darkness"), il viaggio del protagonista nel cuore della natura e nella tenebra dell'uomo è "senza ritorno", non potendosi più ristabilire, a seguito di un percorso fisico e interiore, l'equilibrio precedente, ed andanfosi incontro ad un destino di morte e/o follia, in Fitzcarraldo il viaggio appare proprio in funzione di un "ritorno", in quanto strumentale alla riaffermazione dell'individuo.
Quasi come un superuomo nietzschiano, il destino di Fitzcarraldo è dunque quello dell'eterno ritorno, volto a compiersi mediante il dominio dell'uomo sulle cose (talora anche sulle persone: siano essi indios o altri). Un destino che conferisce al film un fascino, talora, sinistro, forse perchè gli ideali di Fitzcarraldo, nel loro assolutismo, ci dimostrano come la follia dell'uomo precedesse, di gran lunga, l'inizio del viaggio.
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