Sumner Mering. Cantante e chitarrista, e un’oscura carriera di session-man (spesso non accreditato, naturalmente) nella Los Angeles di fine-’70 e inizio-anni ’80. Un proprio disco lo incide anche lui, però. Uno soltanto. Nel 1980. Esce per la Asylum (mica una qualunque) e si chiama semplicemente Sumner. Produce Jack Nitzsche, lo stesso di Nello Young e di tanti altri. In copertina una posa da belloccio a ricordare Stewart Copeland, più che Sting (che si chiama Sumner anche lui, ma di cognome). Tra i solchi, un rock adulto di più che buona fattura. In un imprecisato territorio a metà fra Steely Dan e il power-pop dei Cars. Finisce nel dimenticatoio, naturalmente. Se non per pochi maniaci di certo AOR d’annata ultra-raro. Di lui più nulla si sa, se non che lascia la musica perché i concerti e il successo non fanno per lui (non c’era pericolo, a dire il vero…) e sceglie la via della Fede. Senza la rete, nemmeno saprei della sua esistenza.

Avrebbe meritato qualcosa in più.

Anni e anni dopo, compaiono sulla scena due suoi figlioli. Entrambi bravi, e non poco.

Lui si chiama Zak, ed è un piccolo sgangherato Todd Rundgren a bassa fedeltà. Registra una manciata di pezzi e più di un disco a nome Raw Thrills, suonando quasi tutti gli strumenti. Di rado sopra i 2/3 minuti, e che s’ascoltano con immenso piacere.

Lei, Natalie, si fa chiamare Weyes Blood e s’incammina su tutt’altra strada, quella che porta a un arcano folk adagiato su tenui modulazioni e sospensioni acustiche. Estatico e sottilmente inquietante a un tempo, complice una dichiarata passione per tutto ciò che è esoterico, orientale e alternativo all’ortodossia conservatrice (e un po’ grigia) dei genitori. C’è una curiosa intervista, al riguardo. Introversa per natura, legge più o meno quanto compone musica.

Già un repertorio d’una certa consistenza, a dispetto della giovanissima età. Ma il qui presente EP di quattro pezzi, edito poche settimane or sono e frutto della più spontanea sessione domestica immaginabile, suona persino più puro ed essenziale del suo predecessore ‘The Innocents’ di un anno fa. Voce sopranile che cresce in maturità – profonda, solenne, carica d’espressività su ogni sillaba di cantato. Ma ancor più esaltata dalla perfezione di ogni dettaglio. L’organo di 'In The Beginnings', per esempio. Magnifico, toccante se preferite. Quello di una ieratica ‘Take You There’, unico accompagnamento per la voce lungo la durata di quasi 8 ammalianti minuti. Il flauto di ‘Cardamom’, lontano da ogni ombra di celtismo stereotipato, e quello vagamente jethrotulliano di ‘Maybe Love’, ballata che su un ‘Songs From The Wood’ avrebbe trovato spazio – salvo che per il coro angelico (o trattasi di fantasmi?) affiorante nella seconda parte, tenue cuscino per evoluzioni che nulla concedono allo scontato.

Mai un accento di facile nostalgia, mai una nota di dolcezza banale, mai che il sogno – di un luogo senza tempo – s’interrompa.

E' la trance di qualcuno che è altrove, via di qui. Lontano.

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