Siamo postmoderni, e della shoegaze non c'è rimasta che una stratificazione a tavolino di fuzz, riverbero rovesciato, tremolo parkinsoniano e forse, forse, un obsoleto processore multieffetto a rack che solo Kevin Shields lo sa come si tira fuori il suono più bianco, più ASMR della storia - con buona pace di quei mondani dei Velvet Underground, per fare un esempio - con un dinosauro Yamaha del genere, una Jazzmaster e lavoro di equalizzazione. Così dice lui.
Autonomous Sensory Meridian Response: se Blue - è in Distressor - non vi da il vento caldo, il formicolio alla nuca e la voglia di andare a dormire in un utero per l'eternità, non potete capire. È inutile che vi documentiate.
Si dice che l'abuso di riverbero sulle voci femminili, il sussurro, il reverse, il tremolo forsennato, la pulsazione costante, la lontananza caotica - insieme - richiamino l'esperienza uditiva primigenia: quella uterina. I malinconici hanno la memoria lunga e sguazzano nelle reminiscenze come in un liquido amniotico.
La melodia è requisito della dimensione musicale comunitaria: è una minaccia per l'intimità; io amo lo shoegaze, non mi piacciono le canzoni shoegaze. Preferisco i Cocteau Twins.
Non ascolterete Distressor perché il riff di Leave è così novantiano e vi suona familiare, o perché ci ha fatto una buona recensione Pitchfork - si fotta - perché siete curiosi di capire cosa di nuovo ha avuto da offrire, nel duemilaundici, la terza ondata shoegaze - ve lo dico io: niente - o per infilare tra le vostre playlist fighette un gruppo californiano della Tee Pee, o per qualche altra assurda ragione che mi rifiuto di capire.
Siamo postmoderni, Shields fa più casino da solo dei tre degli Whirr, abbiamo già sentito tutto, non indimenticabili, a mio avviso un album prescindibile: facciamo che questo sia un drone che si dissolve in lontananza. Avete ascoltato shoegaze per mesi, tutti: cercate di ricordare.
Se doveste riuscirci, ascolterete Distressor per la risposta sensoriale, la narcolessia indotta, la malinconia amniotica.
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