Immersi con bombole di ossigeno in quei fondali scuri e salmastri, in quella densità di quel brodo dashi; tra creature marine dal profilo anche alieno, tra sgombri marinati e sashimi di salmone. Tra un colpo di pinna e l’altro in superficie s’ intravedeva un’ombra ovale, a forma di zuppa di miso e shabu shabu, ed in cielo una luce, forse un’astronave, forse un enorme gelato al tè verde. Cherchez le coupable ! esclamò il cameriere, mentre in sala i primi e soliti sospetti stavano cadendo su quelle 17 bottiglie vuote di sakè, quando improvvisamente un commensale indicò con il dito quel vinile che stava girando da ore sul piatto ; Out !! urlò con veemenza, mentre tutti spaventati e timorati si riversarono in strada... Mentre il canto sgraziato di You Ishihara, a tratti claudicante come Tom Verlaine a tratti come Sky Saxon e quel carillon contro tempo evocava un po' balordo un po' ingordo atmosfere clandestine e cazzotti rubati ad una sceneggiatura di Takashi Miike. Questi giovani ragazzi giapponesi si erano incontrati per caso a Tokyo negli anni ‘90 con tante melodie in testa dalla West Coast, da Planet Jefferson Airplanes & Pink Floyd, un gioco psych che per uno strano scherzo del destino diventò in Sol Levante qualcosa di molto distintivo, con il supporto di un benemerito figlio di NN alla chitarra solista che riuscì come i grandi a farlo tremolare quel suolo, partendo dalle stazioni di MC5 e Sonic Youth, un album di pietra grezza che migliorava dopo ogni ascolto, con pianeti musicali e dimensioni emotive appena nascoste sotto la superficie, suoni e pensieri che erano segni eterni disegnati nelle pareti della memoria cerebrale. Si può essere democristiani, trumpiani o bideniani, ma per captare i segnali di questa combinazione esplosiva non basta. Occorre avere un’anagrafica venusiana con ascendenza nel Pianeta del Sol Levante , per poter captare quella sinuosa distorsione delle chitarre sperimentali pre Daydream Nation dei Sonic Youth; quell’alieno muro del suono proveniente da una dimensione estera; non basta nel nostro mercatino delle pulci mercanteggiare e barattare una copia di Effervescing Elephant e Terrapine, due etti di Baby Lemonade con un cosciotto di Apollo Creed. Dall’altra parte del Sol Levante con tutta quella frenesia di soddisfazione di bisogni , quella auto indulgente american way of life si è persa la volontà non solo di conoscerla ma soprattutto di farla, la Storia.
Il dogma di questa lettura e la misura dell’impotenza ermeneutica dell’ascoltatore del magico Nipposound di Out si misurano con suoni che sono incomprensibili per chi non ne possiede la chiave, dalle smorzate su quella pedaliera Uni Vibe, da effetti barocchi di vibrato e echo, oltre a fuzz e wah.. Ci sono tante influenze nell’album ma nessuna è veramente percettibile, ci sono momenti di rock underground della New York degli anni ‘60 e ‘70; sprazzi di free jazz, di chansons d’oltralpe, di musica classica contemporanea.
L’ultimo brano, Out accentua quell’impotenza di cui si parlava prima, del viaggiatore che coglie solo una parte integrante e non significativa di quei Segni. La chitarra si fonde in un assolo in cui si fondono magistralmente i voli della fantasia della West Coast di John Cipollina con virtuosismi Hendrixiani di tardo periodo, con suggestioni predate da un film di Kurosawa; quel culto del quotidiano esaltato da quell’infinito volteggio del bending nel vuoto.
Questo...è un paradiso Bianco.
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