Bombe e Farfalle: chissà l’origine di cotanto titolo. Ad ogni modo questo quinto album degli Ateniesi georgiani, uscito nel 1997, comincia benone col rock di “Radio Child”, corposo ma striato di funky grazie al lavoro al clavinet del tastierista ed a quello nuovamente agilissimo e pulsante del bassista. A riuscito contrasto segue la riflessiva e non troppo incisiva “Aunt Avis”. Incisivo è invece il pianoforte parzialmente honky tonk che introduce e poi sostiene brillantemente “Tall Boy”, per nostra goduria.

Ma ci siamo, dai: alla sbandata verso le rigidità heavy (per modo di dire) del precedente lavoro “Ain’t Life Grand” fa seguito qui una mezza restaurazione verso ritmiche più agili, senza bisogno di banali bicordi fragorosi, e maggior varietà.

Ne è un esempio la distesa “Gradle”, americana fino al midollo; pianoforte stavolta elegante e più rarefatto, Hammond ammiccante, chitarre per una volta fanno tappezzeria; o quasi perché l’assoletto ondivago di Michael Houser spunta sempre, nel mezzo: una vera ballata sudista, distinguibile da quelle di Tom Petty solo per la voce molto diversa (e migliore). “Glory” alterna passaggi in 4/4 con altri in ¾, nello stile precipuo di questo gruppo pienamente recuperato dopo le recenti divagazioni; in meno di quattro minuti il ritmo cambia una dozzina di volte fra tre o quattro soluzioni diverse, e insomma non ci si annoia di certo: fra le migliori.

Il basso educatissimo del panzuto Dave Schools apre l’interminabile “Rebirtha”, la quale arriva ben oltre i sette minuti; si approccia come un saltellante funk rock in odore di Little Feat, però tutto cambia durante l’assolo di chitarra, sotto il quale gli strumenti ritmici giocano con pieni e vuoti e parecchi cambi di tonalità, ispirando continuamente la chitarra solista che certo non si risparmia. “You Got Yours” che segue è più anonima, intanto perché interpretata dalla vocalità sonnolenta del tastierista John Hermann, poi perché mantiene le coordinate di un hard rock, seppur dinamicizzato dal suo rarefarsi nelle strofe e ricicciare nei ritornelli. Tremoli estremi gilmouriani e organi mistici wrightiani alla Meddle o Ummagumma la rendono vagamente pinkfloydiana in certi particolari punti.

Hope in a Hopeless World” è per niente memorabile, non aiuta l’assolo d’organo anni sessanta in stile Animals e quello di chitarra, tirato via; meglio il trapestio di Domingo Ortiz sui timbali, a concludere l’intermezzo strumentale; un riempitivo comunque. Viene in soccorso “Happy”, uno strumentale che si giova del caratteristico modo di arpeggiare la chitarra che contraddistingue Michael Houser. Ma la degna conclusione del lavoro arriva con “Greta”, ennesimo funky rock pilotato dal clavinet, con un cantato blues corale, il tutto come spesso succede sottoposto a straniamento dall’assolo psichedelico di chitarra, lesto però a ricondursi all’equilibrio iniziale quando i cantanti riescono a riprendere il microfono in mano (mica facile, con Hauser).

Anche stavolta vi è qualcosa di fantasmico alla fine del disco, stavolta non un brano dopo qualche secondo di silenzio bensì un lungo brusio come di cicale che rimbalza a destra e sinistra, davanti e dietro dell’immagine stereo, prolungando “Greta” oltre i suoi sei minuti e facendola arrivare agli undici.

Dei primi cinque album dei Widespread Panic, il migliore continua a sembrarmi il secondo omonimo, ma c’è niente da buttare nella loro discografia, e ben poco fra i brani se presi singolarmente: una formazione di mirabile qualità media, una perla nascosta qui in Italia, un privilegio conoscerli a fondo.

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