Uno straniante inizio, mezzo musica da camera mezzo drum & bass, si risolve nel classico caracollare funk rock di questo valente sestetto residente ad Athens, Georgia, USA. È l’incipit del loro sesto album ed il brano s’intitola “Surprise Valley”; con tutti quei timbali ed il chitarrone solista in primo piano, sembra una faccenda dei Santana, finché arriva la sorpresa: al quinto minuto ritornano gli archi da camera iniziali per un momento, ma il tutto sfuma in un triello mandolino/chitarra acustica/organo pensoso ed atmosferico, non più “messicano”, proprio il contrario dei costipati primi cinque minuti.

Neanche il tempo di abituarcisi però, che sopravviene il secondo pezzo “Bear’s Gone Fishing”: bello, elegante e… accessibile (cori femminili, basso nodoso e ballereccio, irresistibile); senza diventar commerciali, questi Widespread Panic del 1999 sono sempre più rotondi, e le loro stranezze rotolano con invidiabile levigatezza da una parte all’altra di questa canzone. “Climb to Safety” invece non riserva sorprese: è un rock blues vigoroso con tanti contro cori, a rispondere e spingere il canto solista bello blues di Bell.

La classe sopraffina e la caleidoscopica energia del gruppo si fa apprezzare di nuovo nel country blues “Blue Indian”, una faccenda forse circoscrivibile a chi apprezza certe cose molto made in USA, condite di steel guitar, cori uuh e aah a destra e sinistra, batteria strofinata con le spazzole. Non paghi, i signori ci propinano subito un ulteriore, rapido country stavolta spennellato di bluegrass (banjo, batteria in 2/4); s’intitola “The Waker” e se lo canta il tastierista e cantante di ripiego Alan Herman.

Desertico l’inizio di “Party At Your Mama’s House”: dobro e slide su un tappetino d’organo e percussioni, delizioso e atmosferico. Ma poi il brano si intosta con gli schiocchi di rullante che accelerano il ritmo e trascinano anche il basso a fare il suo importante lavoro; più in là il panorama sonoro si rilassa di nuovo e viene da immaginarsi che ‘sti sei omini potrebbero andare avanti così anche per una mezz’ora… d’altronde sono i Widespread Panic, cosiddetta jam band… Dal vivo, perché in studio il produttore provvede a troncar loro il giochetto preferito, nell’occasione mandando in assolvenza una specie di siparietto acid/house che non c’entra niente ma crea assoluto interesse… prontamente scemato dall’aspro rumore di una puntina fatta strisciare su di un disco di vinile! Dopo di che, vi ruzzola dentro un poderoso funky hard rock cantato alla carlona in stile Frank Zappa (quando si teneva serio), pieno di stacchi e di strumenti pestati duro. Risultato finale: una figata! S’intitola “Dyin’ Man”.

Uno pensa: minchia, si sono incattiviti ‘sti sudisti! Invece i bollori si spengono con “You’ll Be Fine”, ballata con melodie talmente oblique e accordi talmente tanti e vicini l’uno all’altro che è impossibile memorizzarla; voce solista sconosciuta, a ben notare, ma chi la canta? Forse il batterista. E chi canta quella dopo “One Arm Steve”? Anche qui, timbro mai sentito prima… forse il chitarrista Michael Houser. Aiuto! Ma non è importante, quel che conta e che tale disco scorra avanti alla grande, vario e consistente, ben prodotto, col solito gran tiro grazie all’impeccabile sezione ritmica che si ritrovano.

Il familiare canto un po’ rauco di John Bell torna a primeggiare su “Christmas Katie” (che diavolo di titoli, però), un rhythm & blues sul quale incombe una sezione fiati, guidata da un volitivo trombone; epperò il gruppo, come spesso gli succede, non ce la fa a star fermo ed al quarto minuto parte lancia in resta a velocità doppia, Houser l’esagerato si mette a ondivagare sulla chitarra elettrica come da conclamato stile e la faccenda finisce a schifio, coi fiati ad emettere scorregge di congedo e il ritmo che si esaurisce liberamente. Molto compatta e logica invece “All Time Low”, una ballata in mid tempo scandita dalle sferraglianti chitarre acustiche, mentre che il basso si avvinghia ai tonfi della cassa del batterista e non se ne perde uno, come da manuale del ritmo.

Quando arriva la conclusiva “Nobody’s Loss”, tutta chitarra acustica e voce alla Neil Young, Bob Dylan o chi volete, non sembrano neanche loro… tanto tradizionale e “vecchio” questo country rock pare (zero groove, batterista al bar a farsi un paio di birre, tutto che tira indietro in un disco che invece ha galoppato in avanti per tutto il tempo). Ci sono pure un sacco di cori, che ovviamente non fanno neanche il solletico agli specialisti del settore tipo CSN, Poco, Eagles eccetera.

Ho descritto, alla carlona per chi è musicista, “tecnicamente” per chi non lo è, il disco forse migliore dei miei amati Widespread Panic. Non presenta grossi capolavori, ma la media qualitativa è altissima, non ci sono fillers ed il suono, la produzione, la varietà, la libertà espressiva hanno il vento in poppa.

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