Per 36 volte. Il finale di "Misunderstood" Jeff Tweedy lo ripete 36 volte. Misunderstood, appunto. E pensare che è una parola semplice, "nothing". Ma lui può farlo. At all.

Quel giorno a Chicago tirava un forte vento, ma era un vento amplificatore. Vento che portava l'odore della campagna, un profumo che avrebbe svegliato anche il principe Valium. Vento che mi ha riportato al 6 settembre, quando in un Mazda Palace praticamente vuoto, i Wilco hanno intimamente mandato in estasi tutti i presenti. Partecipare a un live dei Wilco è come partecipare a una sacra rappresentazione. Non si può rimanere indifferenti e il tempo, inteso come scarto generazionale ed erosione della materia, si azzera. Mia madre ne è testimone. Non sa ancora pronunciarlo bene "Willow, Vilcon" ma sono più le volte che arrivo a casa e c'è su Wilco che la cena.

Volete sapere perché i Wilco funzionano così bene? Perché non gli è mai passato per la testa di scartare un spiga della tradizione musicale della loro terra per fare l'avanguardia, per inventare qualcosa di nuovo, per essere la next big thing. Hanno semplicemente tirato fuori dal sacco gli strumenti e cominciato a suonare come i loro padri, setacciando, fermandosi, bruciacchiandosi, ridendo, guidando. Quello che la critica chiama alt. folk o psych. folk non è neanche poi così sbagliato, ma sa troppo di etichetta, di codice a barre, di salmone affumicato.

Siamo semplici per una volta. Diciamo che in "Late Greats" una chitarra distorta può sembrare uno strumento a fiato. Che "Hell Is Chrome" è come farsi cullare da King Kong. Che la batteria di Glenn Kotche in "I'm Trying To Break Your Heart" suona come la Dea Khalima. Che una chitarra metal può andare a braccetto con un pianoforte, leggi "A Shot In The Arm", e può portarselo pure a teatro. Che un "Hummingbird" qualsiasi ti fa venire una voglia di picnic da non crederci. Che un "Heavy Metal Drummer" può innamorarsi di una donna e non solo della sua patatina. La parte per il tutto con Wilco non funziona.

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