Se togliamo l'acida elettrogenesi e l'incedere ipnotico e i suoni acidi e le ritmiche che si serrano e i synth che gocciolano sullo sfondo e la voce di Jeff Tweedy che livella il contenuto di acido e l'assolo finale che prende velocità rochenrolliane e cresce e cresce e cresce di "Art Of Almost".
Se togliamo la ritmica elefantescamente divertente e il basso compressissimo e le tastiere seventies e l'allegro glockenspiel che sbuca qua e là e le schitarrate di Nels Cline di "I Might".
Se togliamo l'americana nero pece e gli arpeggi che si perdono a cavallo degli archi e la chitarra elettrica che si allunga e accorcia in lamenti fantastici e il testo che fa accapponare la pelle di "Black Moon".
Se togliamo la melodia, di un'allegria sfiancante, a "Born Alone", senza renderci conto che Tweedy la porta per mano verso un finale che spezza le gambe ("I was born to die alone") e trasforma l'allegria in qualcosa d'inquietante, in un crescendo in fade out.
Se togliamo l'epicità country e la sua carica malinconica ad "Open Mind" e l'immagine dei Wilco fermi su una strada mentre musicano a mò di marcetta spazial-fifties i movimenti di "Capitol City", rigorosamente live, mentre i campanelli delle bici suonano, e i clacson suonano, e le campane delle chiese rintoccano le ore, o chissà cos'altro.
O se togliamo la velocità e la carica rochenroll funanbolica e il ritornello che fa saltare e i clapclap e la presa fottutamente catchy di "Standing O" o, peggio ancora, i fantasmi beatlsiani della title track.
Se togliamo tutto questo non rimane nient'altro che un disco pop proveniente da marte.
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