Se c'è un mondo che tende a prendersi terribilmente sul serio, quello è il pop. Ogni santo giorno qualche rivista patinata più o meno "specializzata" se ne esce fuori con un "ecco i nuovi Beatles", piuttosto che "ho visto il futuro del rock". Il più delle volte con esiti sconcertanti, e se tutto va bene, nella migliore delle ipotesi abbiamo a che fare con un onesto gruppetto di teenager o giù di lì che però di futuro, musicalmente parlando, hanno ben poco da proporcene, con antologie di riff riciclati per l'ennesima volta. In compenso, hanno abbastanza puzza sotto il naso, look da fighetti e boria per pubblicizzare qualche linea di abbigliamento nelle suddette riviste "specializzate".
Per cui forse è da restare stupiti se tra i pochi a non prendersi troppo sul serio ci sia un gruppo come i Wilco, che sicuramente di serietà ne meriterebbero molta di più. O forse è proprio questo ergersi a paladini della preziosa, più unica che rara, arte dell' e-suvvia-non-prendiamoci-troppo-sul-serio a nobilitarli. In effetti i Wilco con questa settima fatica uscita direttamente dalla sala d'incisione sembrano divertirsi non poco a prenderci per il naso. Già la copertina, col cammello vestito a festa su una terrazza per un imminente quanto improbabile party, nel suo candido surrealismo sembra fare il verso a certe famose copertine di album progressive anni '70. Ma non può non rimandare anche, nella sottile ironia che trapela, ai maestri indiscussi dell'arte dell'e-suvvia-non prendiamoci-troppo-sul-serio, i Supertramp.
Sia come sia, i Wilco proseguono nel loro prenderci per i fondelli intitolando l'album col loro stesso nome. E fin qui tutto bene, in quanti album omonimi ci siamo imbattuti nella nostra esistenza? Sì, ma non si chiama solo "Wilco", aggiunge pure un apparentemente pedante e pignolo "(The Album)" che sa tanto da correzione sul compito del prof. Ma è solo apparenza. Perché l'apice della burla lo rinveniamo nel pezzo che apre le danze chiamato guarda un pò "Wilco (The Song)": insomma, non solo è la title-track, ma pure la title-band! In ogni caso è soprattutto una signora canzone, sorretta da un riff immediato e da un ritornello ("Wilco will love you baby") che ti entra in testa per non uscirne più, con una spiccata tendenza a drogare l'ascoltatore e convincerlo a lasciarla suonare sullo stereo più volte. Inutile dirlo, questo pezzo è senz'altro destinato a divenire il loro inno live, dove peraltro è stata proposto più volte nell'ultimo anno.
Siamo solo agli inizi di un album che per molti versi come il predecessore "Sky Blue Sky" segna il distacco dagli sperimentalismi di "Yankee Foxtrot Hotel" e "A Ghost Is Born" e un ritorno a quel pop rock (o alternative country per gli appassionati delle etichette) acuto e raffinato degli esordi che avevano abbandonato dopo "Summerteeth". Non solo, ma rispetto a "Sky Blue Sky" questo "Wilco (The Album)" è speculare e complementare: quanto quello mostrava il lato più intimistico e riservato e allo stesso tempo legato alla tradizione della band e del suo songwriter Jeff Tweedy, questo vira decisamente più sul rock e, appunto, sul pop, risultando essere il loro album più accessibile da parecchio tempo in qua senza suonare scontato o radiofonico (anche se credo in altri anni piuttosto lontani lo avremmo trovato spesso sulle frequenze Fm di qualche radio indipendente). Il tutto grazie anche a una line-up oramai stabile che vede tra le sue fila un signore ultracinquantenne come Nels Cline, chitarrista estroso ed estremamente versatile che da qualche anno in qua sembra aver aggiunto nella dimensione live un pò di sale alla già saporita musica Wilco (e per chi non ci credesse consiglio vivamente il live "Kicking Television" e lo stripitoso dvd da poco uscito, "Ashes of American Flags").
L'impressione, insomma, è che i Wilco abbiano voluto ritornare con gli ultimi due album sui binari più tipici della canzone, ma immergendole in un tessuto sonoro del tutto peculiare, e che anzi vogliano giustificare le passate scorribande sperimentali proprio come necessarie per arrivare a questi sviluppi. Scorribande che tra l'altro riaffiorano a più ondate in pezzi come "Bull Black Nova", che rispolvera i toni vagamente cupi e claustrofobici di "Kidsmoke", come pure nell'evolversi delle trame musicali dei brani, che si sa come iniziano e spesso non come finiscono, marchio, quest'ultimo, di fabbrica di Tweedy e co. Per tutti i primi cinque degli undici pezzi i Wilco non sbagliano un colpo: tra la title-track-band e "Bull Black Nova" i Nostri infilano due levate di puro ingegno come "Deeper Down" e "One Wing", semplicemente da brividi nella loro fragilità per come sembrano sempre essere in precario equilibrio e sul punto di precipitare chissà dove. E poi una canzone semplice come "You And I", dove troviamo un duetto tra Jeff e Feist, dolce e delicata con uno splendido assolo di autentica chitarra raga di byrdsiana memoria (!!) (ah Cline Cline, che faremmo senza di te?).
Il resto alterna momenti divertenti come la vagamente georgeharrisoniana "You Never Know" o "Sunny Feeling" che sembra rispuntare dagli archivi di "Being There" o "Summerteeth", ad altri episodi oggettivamente più ordinari come "Country Disappeared". Ma anche alle soglie della conclusione troviamo un paio di gemme, come la fin dal titolo malinconica "Solitaire" e il finale. Ecco, e qui mi permetto un'ultima osservazione. Se c'è qualcuno che i finali li azzecca irrimediabilmente, quelli sono i Wilco. Già nel disco precedente un pezzo come "On And On And On" valeva tutto il prezzo del biglietto. Ma con "Everlasting Everything" bissano e centrano il bersaglio. Un pezzo struggente e amaro che fa da perfetto contraltare alla solare e divertente "Wilco (The Song)".
Perché i Wilco, da autentici nobiluomini donchisciotteschi del rock nel 2009, sanno far sorridere ma anche commuovere.
Wilco will love you, baby.
Carico i commenti... con calma