Vi dissi di attendere con fiducia il primo full-lenght dei Wildhoney, ed eccolo.

Maniera tanta, mestiere pure, nessuna apparente contaminazione esterna all'ambito shoegaze radicale. Bene.

Il problema della scena gaze oggi non è tanto l'esercizio di genere di tanti mesterianti borghesi che fanno gaze perché possono permettersi pedaliere da 50 mq calpestabili, testate con masse tipo casse 4 x 10, collegate ad altre testate collegate a casse abitabili con vano guardaroba e angolo bar. Il problema è che latitano le canzoni, quelle che ci fai non dico singalong ma almeno un fischiettio, un mugugno; che ci si sentono più i Field Mice che i Deftones - non che i Deftones, per carità, ci mancherebbe ecc. - e insomma un nucleo melodico, un'idea forte, un lampo d'ispirazione riconoscibile.

Ecco, i Wildhoney non inventano né sgabbiano, ma ben conciliano l'esuberanza dei watt alla melodia di sicuro appiglio mnemonico, e pezzi come I Owe You Nothing si lasciano ricordare e ricantare volentieri nonostante il su-giù/dest-sinistr della testa quando il basso si storce, la dinamica aumenta e le tinte pastello si accendono, a cera. Infantile nel dolce falsetto singhiozzato della frangiata Lauren Shusterich, capace di discrete acrobazie in minore (la bella Tea Leaves, dalle suggestioni vocali celtiche-orientali), algide e liquide discese (Fall in apre al meglio).
Non hanno paura di svelare gli intrecci della solista (mossa tra tremolo-picking e arpeggiato alto) dell'accompagnamento e del basso: li presentano cristallini, perfettamente leggibili, liberi da acufeni e ceroni di fuzz, ché loro non hanno lacune compositive da mascherare in nome della propulsione e dello sballo di decibel.

Il mood generale è nettamente Souvlaki, malinconico e subacqueo, con momenti più movimentati in zona Whirlpool - quel meraviglioso e trascurato disco dei Chapterhouse - e scatti improvvisi di surf punk postmoderno (da ascoltare Maybe You're Crazy). Sognanti anche loro, ma più spinti degli Echo Lake, per fare un bel nome della nuova scuola; qui penalizzati da un missaggio e forse addirittura una presa dagli ampli non del tutto convincente, tra chitarre a tratti troppo dietro e scariche, basso evanescente, riverberi a tratti innaturali, feedback poco coraggiosi. L'EP suonava meglio, basti sentire il divario di taglienza tra la colà versione di Seventeen e la qui presente.
Per quanto sia bello che i Wildhoney privilegino la sostanza,
scrivano sull'acustica e non si possano permettere pedali pesanti, rischiano un anonimato timbrico tipo Nocturne degli altri selvaggi sulla scena, i Wild Nothing.
Qualche pacchetto di sigarette in meno, qualche pedale in più, una decina di ingegneri del suono e al prossimo giro saranno cinque stelle.

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