A proposito di William S. Burroughs (1914 - 1997), scrittore, padre spirituale della beat generation, uomo simbolo dell'America alternativa, personalità eminente del novecento, artista che ha rivoluzionato la letteratura e che con la sua letteratura ha influenzato generazioni intere di artisti, rivoluzionato usi, costumi, modi di pensare, fare cinema, fare musica: molti non sanno che esistono diversi album in cui Burroughs "dà voce", nel vero senso della parola, ai suoi scritti più celebri.
"Dead City Radio", uscito nel 1991, è probabilmente il lavoro più intrigante della serie.
L'operazione nasce da un'idea del produttore Hal Willner. Diversi anni prima Willner, nelle vesti di coordinatore musicale del celebre programma televisivo "Saturday Night Live", ebbe modo di entrare in contatto con l'anziano scrittore, ospitato e chiamato a leggere brani estratti dai suoi scritti più noti.
Fu una vera folgorazione. Una folgorazione che, dopo travagli vari, condusse infine a "Dead City Radio", pubblicato dalla prolifica Island: scaturita da diverse sessioni, l'opera si compone di passi, poesie, conversazioni, riflessioni e quant'altro possa esser stato riesumato dagli archivi personali dell'artista americano.
"Dead City Radio" è ovviamente un album parlato: la voce farneticante di un Burroughs, oramai alla soglia degli ottanta, è ovviamente al centro di tutto. Certo, nomi come John Cale (!) e Sonic Youth (!!!) non passano inosservati (partecipano anche Chris Stein, Donald Fagen, Cheryl Hardwick e Lenny Pickett), ma è bene chiarire che il contributo dei succitati artisti è strettamente funzionale all'allestimento di un sottofondo che funga da elegante cornice alle suggestive narrazioni dello scrittore.
A predominare sono le sezioni a cura della NBC Symphony Orchestra diretta da Pickett (autore della maggior parte dei brani): composizioni solenni, a tratti epiche, a volte perfino pacchiane, intervallate qua e là da fugaci rintocchi di piano jazz, morbide escursioni di organo, squarci obliqui di un'elettronica ambientale chiamata ad evocare le atmosfere notturne e metropolitane che caratterizzano la letteratura di Burroughs.
Inevitabilmente l'opera finisce per assumere connotazioni apocalittiche, e non è un caso che siano presenti passi estratti dal Vecchio Testamento. La voce di Burroughs è capace di incutere soggezione, inquietudine, a tratti perfino terrore. Una porta che sbatte, uno scricchiolio nel buio, un vetro che s'infrange: a momenti si ha l'impressione che nostro nonno sia posseduto dal demonio e ci stia sussurrando nell'orecchio una vecchia storia dell'orrore. "Naked Lunch Excerpts ("You got any Eggs for Fats?")/Dinner Conversation ("The Snakes")" e "After-dinner Conversation ("An Atrocious Conceit")/Where He Was Going" ne sono gli esempi migliori, dove rumori e suoni reali ripercorrono il filo narrativo dei brani selezionati.
Ma il tutto non si esaurisce in una semplice messa in musica dell'arte estrema e rivoltante di Burroughs. Come accennato in principio, lo scrittore è anche il più degno rappresentante di un'America inquieta, marcia, degenerata, disillusa e ben lontana dal luccichio del tanto decantato American Dream. Per questo l'opera in questione va vista soprattutto nell'ottica di una lucida, quanto cinica, riflessione sull'America, sulle contraddizioni e sull'ipocrisia che ne ammorbano la società e la cultura dominante.
Non mancheranno quindi il sarcasmo, l'ironia, l'amarezza, le invettive al vetriolo e la denuncia schietta di chi i peli sulla lingua non li ha avuti mai: l'Apocalisse è in realtà la patria di Burroughs, luogo di barbarie, degrado, corruzione (eloquenti, a tal riguardo, i nove minuti di "Apocalypse"). Il tutto narrato con invidiabile senso dell'humour ed appassionante estro dialettico.
Vera ciliegina sulla torta è tuttavia la conclusiva "Ich Bin von Kopf bis Fuss auf Liebe Eingestellt (Fall in Love Again)" di Frieddrich Hollander, questa volta cantata per davvero da Burroughs: una breve ballata pianistica dai fumosi contorni noir, in cui la voce sgraziata e strascicata dell'inossidabile ottantenne continua a ricordarci nostro nonno, sempre posseduto dal demonio, e per giunta ubriaco fradicio.
Lo sfiatato canto del clarinetto stende un sipario sulle visioni trasmesse dalla radio della città dei morti, lasciando sul palato l'amarezza, la desolazione, l'infinita malinconia di una notte fredda che giace immobile sulle strade deserte e nebbiose di una metropoli sudicia e corrotta.
E' ovvio che l'album porta in sé tutti i limiti di fruizione di un album parlato e che in virtù di ciò il suo ascolto è consigliato principalmente a chi ben padroneggia la lingua inglese. Tuttavia l'album finisce per ammaliare anche solo per le suggestioni meta-testuali che è in grado di trasmettere, tanto sono cariche di pathos le narrazioni, tanto è indefesso ed indelebile il carisma di questo vecchietto che, oramai incamminatosi lungo la via del tramonto, è in grado di preservare in tutto il suo vigore il potenziale traumatico, dirompente e provocatorio della sua arte immortale.
Lunga vita a William S. Burroughs!!!
Carico i commenti... con calma