Sì, è compensibile. Probabilmente anch’io aggrotterei le sopracciglia o atteggerei le labbra a un sorrisetto sprezzante.
C’è proprio bisogno che io vi parli dell’”Amleto”? No. C’è qualcosa che possa aggiungere ai fiumi d’inchiostro versati per analisi critiche, studi comparati, indagini psicologiche, rimandi storici o riferimenti socio-culturali? Certo che no. Credo forse di saper raccontare in modo particolarmente accattivante (o particolarmente originale) una delle più conosciute opere dell’umanità continuamente citata, vivisezionata e depredata? Ancora una volta no.
Questa pagina è, a tutti gli effetti, perfettamente inutile.
Ma che fare se in questi giorni il mio disgusto verso tutto ciò che mi circonda è intollerabilmente acuto? Che fare se cercassi di prendere il principe Amleto come modello, come fonte ispiratrice dei miei pensieri e delle mie azioni qualora volessi dichiarare guerra (guerra senza quartiere!) a questo mondo? Che fare se volessi parlarvi di alcuni punti specifici della sua storia mettendola in relazione al mio latente (?) desiderio di rivolta?
Semplice, ve ne parlerei. E, nel caso io stesso pensassi che la cosa sia del tutto superflua o persino folle, dirò, come Otello, che “E’ tutta colpa della luna, quando si avvicina troppo alla Terra fa impazzire tutti” (o quantomeno fa impazzire me).
Chi diavolo è il principe Amleto?!
Lui è, in potenza, ognuno di noi. O meglio, ognuno di noi vassalli/valvassori/valvassini della decadente ed esausta società/cultura/economia occidentale.
Oddìo, rispetto alla maggioranza di noi, lui è messo un pochino meglio: vive in un castello, è erede al trono del regno di Danimarca e, di certo, non fatica a sbarcare il lunario.
Ma il principe Amleto è roso da un tarlo.
Certo, suo padre il re è appena morto in circostanze sospette e lui non sa farsene una ragione; certo, sua madre la regina si è immediatamente risposata con Claudio (zio di Amleto, fratello del suo defunto padre e, grazie a questo matrimonio, nuovo re) e questo gli dilania le viscere: “Oh Dio! Una bestia, a cui manca il discorso della ragione, avrebbe pianto più a lungo!”. Ma il fatto è che questo tarlo sta imperversando e allargando il suo raggio d’azione sulla coscienza stessa che Amleto ha della vita umana, divorando tutto il legno delle impalcature, dei ponteggi, dei retaggi culturali che lo tengono ancora agganciato al suo presente: “Oh Dio! Oh Dio! Come tediosi, vieti, insipidi e non profittevoli sembrano a me tutti gli usi di questo mondo! Come l’ho a schifo!”.
Chiunque sano di mente (e in buona fede), chiunque (arrivato nell’età della “ragione”) ha provato, almeno una volta, questo senso di trivialità, di impostura, di terribile inerzia delle cose di questo mondo. E, nei momenti in cui si percepisce tutto questo, le parole dei Polonio (“Non dar voce ai tuoi pensieri, né la tua azione ad alcun pensiero smisurato), dei Laerte (“La miglior salvezza sta nella paura), dei Claudio (“Perché quel che noi sappiamo dover essere, perché dovremmo noi, nella nostra petulante opposizione, prenderlo a cuore?”), sanno di inaudita beffa, diventano, più che acque termali che narcotizzano i nervi, gocce che riempiono, una dopo l’altra, il vaso del cuore esasperato.
Quello che accade di rado è però arrivare al punto di non ritorno, a quella linea che, una volta varcata, fa di noi qualcos’altro. Il principe Amleto la trova quell’ultima goccia e la trova nello spettro di suo padre: simbolo di tutti i vili tradimenti (passati, presenti e futuri), di tutte le sordide iniquità (passate, presenti e future) che appestano questo letamaio che chiamiamo mondo e che gridano vendetta, il fantasma rivela al figlio il segreto della fine della sua vita terrena per la viscida mano di Claudio e gli chiede di regolare i conti: “Addio! Addio! Ricordati di me”.
Ma la natura del principe Amleto è quella di un uomo che spacca il capello il quattro, un uomo nel quale il lavorìo dell’intelletto fa da continuo contrappeso al turbine delle passioni. La vendetta, nelle sue intenzioni, avverrà solo al momento opportuno.
Nel frattempo, per celare i suoi propositi, crederà sia “Conveniente affettare un umore fantastico” dinnanzi a tutta la corte. Ma come è lucida la sua artificiosa follia!
Una mente accesa da una visione soprannaturale, da un obiettivo ben chiaro e da uno stato d’animo di (auto-imposto) delirio continuo: Amleto raggiunge un grado di illuminazione superiore che spazia dal disilluso (“Il mondo è una vaga prigione, in cui vi sono molte celle, carceri e segrete; e la Danimarca è una delle peggiori”) all’esistenziale (“Io potrei esser confinato in un guscio e ritenermi re dello spazio infinito, se non fosse che faccio cattivi sogni”), dal sarcastico [vedere le sferzanti (e divertentissime) risposte date a Polonio nel II e III Atto] all’immortale [quì dovrei citare quella cosina che è il monologo dell’ “Essere o non essere…”, ma è troppo inflazionato (oltreché facilmente rintracciabile) e, quindi, glisserò].
Ci sarebbe, per la verità, l’amore di Ofelia (“La vaga Ofelia”): l’ultima offerta che il mondo potrebbe ancora elargire per mutare in qualche modo il corso del destino di Amleto.
Non è chiaro (e questa ambiguità, questa interpretabilità è una delle più grandi virtù di tutta la produzione shakespeariana) se Amleto la sacrifichi sull’altare dei suoi progetti di sangue, se la ritenga in qualche modo collusa ai consiglieri di Claudio oppure se la voglia proteggere allontanandola dal suo percorso che sente inevitabilmente diretto verso un epilogo cruento; sta di fatto che la fanciulla sarà scacciata in malo modo (“Vattene in un convento; perché vorresti essere generatrice di peccatori? Io stesso sono discretamente onesto, ma potrei accusarmi di tali cose che sarebbe meglio che mia madre non m’avesse mai partorito […] Va’ per la tua strada, in un convento”) e, non reggendo al dolore del suo cuore spezzato (sia per l’amore negatole da Amleto sia per l’involontario assassinio di suo padre Polonio perpetrato proprio dal principe di Danimarca) , impazzirà prima e morirà suicida poi.
Ma Amleto si fa ancora degli scrupoli. Lo spirito che ha visto “Potrebbe essere un diavolo […] Che m’inganna per dannarmi”.
Se la nostra rivolta contro il mondo sarà totale, ricordiamoci (come Amleto) di far leva sulla psicologia e utilizzare le arti o i mezzi di comunicazione per ottenere informazioni, per stanare la coscienza dei potenti e per fugare quel che resta dei nostri dubbi. La compagnia teatrale a cui Amleto farà recitare l’assassinio di un re (tale e quale a quello che lo spettro di suo padre gli aveva raccontato di aver subìto in vita) e al quale Claudio reagirà scappando trafelato non sopportandone la vista, sarà la prova definitiva.
Definitiva ad un livello intellettuale, ma ancora non sufficiente per generare un’azione: è possibile che avremo bisogno di esempi per deciderci finalmente ad imbracciar le armi. Il principe Amleto li trova in Fortebraccio (re di Norvegia) e nei suoi soldati che, contendendo un piccolo lembo di terra al re di Polonia, mettono a rischio le loro vite, senza troppi sofismi, solo per una mera questione di prestigio; lui, che avrebbe motivi molto più validi per tramutare il suo proposito di vendetta in un atto, comprende quanto sia “Un codardo scrupolo pensare troppo minutamente alla riuscita - un pensiero che, diviso in quarti, non ha che una parte di saggezza e ben tre parti di codardìa”.
Ma ricordiamoci anche che nulla andrà come crediamo di poter preventivare, nulla disattende maggiormente i propositi degli esseri umani come i ciechi colpi della Sorte e dunque, come dice Amleto, bisogna essere pronti, sfidare gli “Auspici […] Se è ora, non è a venire; se non è a venire sarà ora; se non è ora, pure verrà; l’esser pronti è tutto”.
Se la nostra rivolta terminerà come la carneficina dell’ultimo Atto dove tutti i personaggi principali (Amleto compreso) renderanno l’anima a un qualche Dio, se noi stessi saremo un semplice predellino per il successivo regno a venire (come sarà quello di Fortebraccio), se il prezzo da pagare sarà alto e ci sembrerà, in punto di morte, tutto inutile non facciamoci troppo caso.
L’inutilità è l’essenza delle cose per cui vale la pena vivere e tutte le altre, quelle stimabili o quantificabili, non sono nulla, sono solo la crusca delle cose che ci nutrono davvero: sono solo il resto, dove tutto, come nel sonno eterno, “E’silenzio”.
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