Diciamo pure che nella vita si attraversano varie fasi, e aggiungiamo altresì che, una volta guadate, non è detto che (alcune) non possano ritornare a condizionarci il passo.

Una decina d’anni or sono le acque in cui mi dibattevo erano quelle dell’instabilità economica: lavori saltuari, paghe incerte, contratti capestro, condizioni basculanti. Gettavo il cuore (per non parlare del cervello) oltre l’ostacolo e cercavo di adattarmi a ciò che mi riservava la sorte… Insomma, quasi come ora (ma quel “quasi” fa tutta la differenza del mondo).

Per un mesetto ho fatto il cassiere presso una reverendissima e autorevole catena di Supermarket.

Per la verità i soldini che ne ricavavo non erano neanche troppo esigui, ma l’ espletazione della mia funzione (soprattutto nelle giornate di grande affluenza) aveva su di me un effetto alienante: “BIP BIP”, “Buongiorno signora”, “Contanti, bancomat o carta di credito?”, “BIP BIP BIP”. Avete capito, e, se qualcuno di voi l’ha fatto, ha capito ancora meglio.

Mentre ero in quel girone infernale, stava per rendersi vacante il posto di responsabile d’area che avrebbe, di lì a poco, onorato con i suoi galloni e circonfuso con il suo prestigio uno dei cassieri più anziani. I papabili (se, al tempo, ho ben capito) erano in due.

Mio Dio che occhiate si scambiavano! Frecce avvelenate, pugnali arroventati! Sembrava non aspettassero altro che l’occasione giusta per correggere con la cicuta ognuno il caffè dell’altro e, dietro l’affettazione della conversazione quotidiana, i loro sguardi pareva dicessero: “Stelle, nascondete i vostri fuochi! La luce non veda i miei tenebrosi e profondi desideri!”.

La prima messa in scena del “Macbeth”, a quanto si sa, risale al 1606. Divisa in cinque atti, ambientata nell’antica Scozia e ispirata al racconto storico di Raphael Holinshed, l’opera costituisce il penultimo anello (“Antonio e Cleopatra” sarà dell’anno successivo) della grande stagione delle tragedie shakespeariane.

Nero come la notte nella quale sono ammantate le scene decisive e rosso come il sangue che sgorga copioso sin dalle prime battute, il “Macbeth” è, senza dubbio, il lavoro più cupo del Bardo che, in un’orgia crescente di orrori e miserie morali, sviscera gli effetti devastanti che una sfrenata ambizione di potere porta con sé.

Che sia la nebbia della brughiera scozzese, le notti prive di stelle, gli inquietanti presagi di esseri infernali o le sinistre apparizioni che fanno capolino nel succedersi degli avvenimenti, lo sfondo dell’opera è perennemente squarciato da una luce cruda, caravaggesca, in cui anche l’interno del castello di Macbeth, assume quella fisionomia fatale e oscura che permea le fosche abitazioni di certi racconti di Poe (in particolare “La Caduta della Casa Usher”).

Gli esseri soprannaturali, come spesso accade in Shakespeare, sono la molla che fa saltare il banco, la miccia che innesca l’inesorabile corso della storia. Le tre streghe che presagiscono a Macbeth un futuro da Re, hanno sì il dono della profezia, ma lo elargiscono agli esseri umani attraverso un linguaggio misterioso e ambiguo, tanto che Banquo, compagno d’armi di Macbeth, avverte l’amico che “Spesse volte, per portarci alla nostra perdizione, i ministri delle tenebre ci dicono il vero; ci seducono con delle inezie oneste, per tradirci in cose nel più grave momento”.

Dotate del potere di evocare spiriti e, grazie alla loro capacità di scorgere il futuro, unico (diabolico) conforto per il cuore tormentato di Macbeth, queste megere conservano un loro lato comico: filastrocche, piccoli battibecchi, canzoni sguaiate (più da bettola che da calderone dell’inferno), costituiscono il contrappunto farsesco (pare preso in prestito dalla Commedia dell’Arte) che Shakespeare dà alla loro arte magica.

Un altro tema che ritorna spesso nelle opere del Bardo è il personaggio del Principe che, molto spesso, fa una magra figura. Lasciando per un momento gli orrori via via perpetrati da Macbeth una volta diventato Re, è interessante notare come Duncan, trucidato nel sonno dal protagonista della storia, abbia lo stesso difetto del Prospero de “La Tempesta”, cioè, per sua stessa ammissione, un’incapacità di “Leggere nella faccia la costituzione della mente”. Insomma, non raggiunge i picchi di ridicola (e tragica) vanità senile del “Re Lear”, ma Shakespeare sembra suggerire che alla sua, pur illuminata, regalità manca una qualità basilare: capire di che pasta siano fatti i suoi sudditi.

Vi è, nella tragedia, una grande quantità di personaggi minori e tutti, direttamente o meno, concorrono a creare nel “Macbeth” un clima perenne di sospetto e delazione politica che è amplificato, come detto in precedenza, da segni di sventura e funesti cambiamenti climatici (“Dove eravamo a dormire noi, i camini sono stati buttati giù dal vento e, a quel che si dice, sono stati sentiti nell’aria dei lamenti, delle strane grida di morte”). Persino i bambini sembrano adeguarsi alla crudeltà dei tempi che corrono, arrivando a formulare ciniche considerazioni: “I bugiardi e gli spergiuri sono degli sciocchi, perché ci sono bugiardi e spergiuri abbastanza per battere gli uomini onesti e impiccarli!”.

Ma il piatto forte della tragedia, coloro i quali schiacciano tutti gli altri con la loro titanica presenza, sono Macbeth e Lady Macbeth.

Macbeth è un uomo ricco di contrasti: è insieme pavido e coraggioso, lucido e tormentato, vigoroso e inerte. La sua ambizione sotterranea è accesa sin dal primo incontro con le tre streghe e, pur sapendo che “Duncan ha esercitato così mitemente i suoi poteri, che le sue virtù grideranno alla dannazione eterna della sua soppressione”, sente che il suo pensiero “scuote a tal punto la mia compagine d’uomo, che l’attività della mente resta ingorgata in quella supposizione [quella dell’assassinio di Duncan N.d.R.], e per me non esiste altro che ciò che non esiste ancora”.

Parla alla moglie della profezia che lo vuole incoronato e, una volta commesso il regicidio, la sua mente vacillerà (vedrà il fantasma di Banquo, anch’egli successivamente ucciso, nel bel mezzo di un banchetto) ed i suoi nervi cadranno a pezzi (non riuscirà più a dormire). I suoi problemi con la coscienza, il suo muoversi con balzi isterici, la sua febbre celebrale, lo rendono quasi un avo di quel Raskol’nikov del “Delitto e Castigodostoevskijano.

Eppure Macbeth capisce che la sua ultima (e vana) speranza (mentre i nobili scozzesi, accortisi del suo delitto, tramano per rovesciarlo) sarà quella di andare fino in fondo al destino che si è scelto, confidando che “Le cose nate dal male, attingono forza dal male”. Capace della più terribile crudeltà e di non esitare neanche per un momento (nemmeno di fronte a donne e bambini ) su ciò che sia giusto fare a seconda della situazione in cui si trovi, ne fanno un personaggio quasi opposto di Amleto (con la sua indole metafisica e la sua mente riflessiva).

Solo, con sua moglie morta, con il suo castello in fiamme, troverà una fine degna di lui e morirà decapitato dalla spada di un nemico.

Il peso specifico di Lady Macbeth nella tragedia è (se non superiore) almeno uguale a quello del marito: oscura, inflessibile, con tratti demoniaci, è lei che lo convince a uccidere Duncan.

Sembra non conoscere né rimorso né paura ed è sempre prodiga di preziosi (e velenosi) consigli a Macbeth su come non destare sospetti: “Prendete l’apparenza del fiore innocente, ma siate la serpe che sta sotto”. Poco prima dell’assassinio raccoglie le sue forze psichiche e spirituali quasi attingendole attraverso un rituale di Magia Nera: “Venite al mio seno di donna, e prendetevi il mio latte in cambio del vostro fiele, o voi, ministri d’assassinio, dovunque (nelle vostre invisibili forme) siate pronti a servire il male degli uomini”.

Le mostruosità che dice (“Conosco la dolcezza del bimbo che ti succhia il seno; ma se avessi giurato ciò che tu hai giurato,anche nell’attimo in cui mi sorridesse staccherei la mammella dalle sue gengive e gli fracasserei la testa”), le turpitudini che commette e il sangue freddo che dimostra (con i perentori “Sei un uomo?! ” rivolti a Macbeth in preda ai rimorsi), ne fanno uno dei personaggi (non solo femminili) più inquietanti della storia della letteratura, tanto da far sembrare l’ Hedda Gabler di Ibsen, per esempio, alla stregua di una capricciosa educanda in cerca d’emancipazione.

Eppure… Eppure Lady Macbeth si suicida. Con un colpo da maestro, e senza che niente faccia presagire il lavorìo dell’inconscio che doveva divorarla, Shakespeare ce la mostra nel V Atto che, sonnambula, si frega compulsivamente le mani come per lavarsele dal sangue che hanno versato: “Via maledetta macchia! Via dico! Allora è il momento di farlo! L’inferno è buio! […] Chi avrebbe mai pensato che quel vecchio avesse tanto sangue dentro!”.

E’ l’ultima volta che la vediamo in scena e solo alla fine della tragedia i nemici di Macbeth gli diranno che sua moglie è morta. La strega (quella autentica) è esorcizzata, Il monolite è sgretolato.

Il rapporto Macbeth/Lady Macbeth è completamente escludente, totalizzante ed ha, come supremo collante, una feroce smania di potere. Si potrebbe quasi dire che costituisca l’altra faccia della medaglia di un altro legame altrettanto assoluto (Romeo/Giulietta), quest’ ultimo però benedetto dall’amore.

Il “Macbeth” è questo e molto altro ancora. Bisognerebbe aggiungere che, una delle cose che lo rende immortale, è l’estrema vaghezza e interpretabilità con cui la penna di Shakespeare tratteggia le scene più importanti. Quel non-detto che rende un opera vitale e affascinante, quell’allusione misteriosa che rende un personaggio di 400 anni fa potente e attuale.

Non so come è andata a finire poi al Supermarket, me ne sono andato prima che si sbrogliasse la matassa e, in fondo, non me ne è mai importato molto di queste battaglie per la famigerata “posizione sociale”.

La vita, per me, è un’altra cosa. Non nascondo che a volte la penso come Macbeth: “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”.

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