L'America. Tanto amata e criticata, sopra e sottovalutata, comunque sempre discussa.
L'America oggi imperialista e domani pacifista, l'America con un presidente cretino ma capace di mettere in lizza per la successione una donna superarrampichina e un nero che sembra tutt'altro che male.
L'America che ha inventato il jazz come incontro fruttuoso ed esaltante di culture, l'America patria del blues e del grande cantautorato, l'America della cattiva cucina e del buon campanilismo, l'America della chitarra e della tromba.
Insomma: l'America. Quella di cui nessuno di noi, culturalmente, può né deve fare a mano.
E se mia figlia un giorno diventasse come i ragazzi che mi capita di conoscere per vari motivi, quelli con l'America e la grande cultura in genere a tiro di un download, ma ahimé vittime inspiegabili d'un analfabetismo di ritorno di stampo televisivitalico e del tutto indifferenti a quasi tutto ciò che li ha preceduti... se mia figlia, dicevo, mi chiederà una bella sintesi della Grande America, beh... probabilmente tirerò fuori dallo scaffale questo splendido disco.
Questo disco "postumo" già da vivo. Fuori dal tempo e dai tempi.
Questo live figlio d'una serata perfetta, quasi incredibile.
Questo disco dove due giganti, uno del jazz ed uno del cantautorato folk-country, si incontrano per suonare blues e standars. Si incontrano, non so quanto consapevolmente, ma questo è senza dubbio alcuno il risultato, per celebrare la Grande America.
La voce di Willie Nelson è sempre più bella, sempre più graffiante e intonata. Non sente gli anni, ed anzi migliora. Non si presta a un gorgheggio o a un inutile tecnicismo, prerogativa dei grandi (avete mai sentito Faber da noi o il Boss al di là del mare prestarsi a vocalizzi inutili?). Splendida è anche la sua vecchia e scalcinatissima chitarra. La tromba di Wynton Marlalis, ex ragazzo prodigio del jazz d'oltreoceano, è perfetta. Ha un timbro bellissimo, a metà strada, qui, tra Chet e Louis, con più d'un occhieggiamento a quest'ultimo.
Sì, perché il disco è presentato -così parrebbe dal titolo- come un disco di blues, ma così non è. O, almeno, non è solo così. Qui dentro ci sono splendidi e conosciutissimi standards, e la formazione vocale country-blues di uno dei protagonisti esce preponderante e mai celata. La band, poi -assolutamente perfetta- spesso sfora nel ragtime e nel puro stile New Orleans, soprattutto nei soli di tromba, dove Marsalis omaggia spessissimo Armstrong e non solo (ci sono Bix e Clifford...insomma...c'è l'America della tromba...), pur tenendo conto della propria tecnica e della propria lunghissima -ormai- formazione personale, senza mai lasciarsi andare ad inutili e stucchevoli tecnicismi (che pure avevano caratterizzato una parte del suo passato).
La serata è allegra, il concerto divertente e divertito. Tutto gira che è una meraviglia. E questo disco antico del 2008 si lascia ascoltare in continuazione, e profondamente amare.
Dicevo: se mia figlia mi chiederà (vedremo di farglielo chiedere...), cosa c'è stato prima dei tokio hotel di turno, prima del rapparo di borgata dal portafoglio pieno e l'infanzia difficile, dei piccoli idoli che parlano troppo e dicono nulla, qual'è insomma l'origine della musica che gira intorno e che cosa si ostina a suonare questo papà smutandato che gira per la casa con la chitarra... beh...i o tirerò fuori "Two Men With The Blues" e incrocerò le dita, sperando che tutto ciò che la circonderà non abbia ancora fatto troppi danni.
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