Willie Peyote è ormai un caposaldo della musica Indie italiana, nel suo percorso artistico riscontrabile nella maggior parte degli artisti che passano dalla scena underground a quella mainstream, è stato capace di evolvere il proprio stile verso un sound abbordabile capace di spaziare liberamente tra atmosfere funky, rap e perché no... anche il rock, vedi "I Cani". L'album in questione è quello che mi ha spinto ad approfondire l'artista e a notare la notevole maturazione dei testi e la ricerca nei suoni dell'artista torinese (processo iniziato già nel precedente album "Educazione Sabauda"). Pubblicato nel 2017, è stato capace di rapirmi in un momento di "apatia musicale", passatemi il termine. Dall'alto dei miei 20 anni infatti, ero in una fase di transizione giovanile in cui i miei ascolti più cari ormai iniziavano a stufarmi e tutto ciò che mi passava tra le mani non riusciva a coinvolgermi, fino all'arrivo della Sindrome, capace di sbloccare almeno parzialmente questo stallo. Da buon ascoltatore di rock non avevo mai dato considerazione alla scena italiana contemporanea (e qui faccio mea culpa), salvo poi rivalutarla con la scoperta di questo album e di quelli di altri artisti che gravitano intorno a questo stile (come Eugenio in Via di Gioia o i Pinguini Tattici Nucleari dallo stile più pop) che sa essere semplice e coinciso ma allo stesso tempo contenitore di testi, arrangiamenti e idee importanti, spartiacque della carriera di Willie tra il rap puro e quello contaminato da influenze più "radio friendly". Discorso che non tiene botta invece per i testi che mantengono sempre la vena provocatoria e irriverente, suo marchio di fabbrica. Fondamentalmente questo album è una forte critica alla società, capace di attaccare tutto e tutti basandosi talvolta su luoghi comuni, partendo dallapolitica fino ad arrivare all'uomo più comune. Inizia subito con una atmosfera cupa e introspettiva grazie al pezzo di apertura "Avanvera" che a parer mio forse è il meno riuscito dell'intera opera, si prosegue poi con "I Cani" dal ritmo incalzante fino ad arrivare alla malinconica "Ottima Scusa", basata su un groove di batteria molto simile ad uno shuffle sul quale si incastrano innesti di chitarra e di tastiera, capaci di conferire il giusto mood al brano. Il viaggio prosegue con "C'hai ragione tu" in feat con Dutch Nazari e "Metti che Domani" che scorre vialvia sulla falsariga del brano precedente. Nota di merito per le successive "Le chiavi in borsa", "Portapalazzo" e "Vendesi". Non avrebbe senso continuare con il track by track, poiché il disco alterna momenti di leggerezza a brani più malinconici capace di lasciare a fine ascolto quasi con l'amaro in bocca. Per arrivare a conclusione di questa mia prima recensione, questo album è stata una bellissima sorpresa capace di infondere in me tanta ispirazione nella mia attività di cantautore in erba. In ogni caso consiglio l'ascolto senza pregiudizi a chiunque cerchi qualcosa di leggero ma non scontato. Voto 8/10

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