Papa Razzy, con “Deus Charitas Est”, lettera encyclica, ha tenuto a rendere pubblici i risultati di un anno di pontificie ricerche sulla natura del Sommo.
Un’esternazione, la sua, che ha scatenato un’ondata di attività e di entusiasmo. Meno risonante è stata l’uscita di “Shot and Echo”, con cui Wim Mertens ha tenuto a rendere pubblici i risultati delle sue ricerche sulla natura della melodia applicata al minimalismo.
Indaffaratissimo al tempo coi suoi tripli e quadrupli cofanetti per specialisti masochisti, il belga pubblicò nel 1992 “Shot and Echo” e il gemello “A Sense of Space”. Le due esternazioni affondarono immediatamente in un’ondata di completa indifferenza. In effetti sono due uscite minori; sottolineano però la sua dedizione alla volgarizzazione di una ricerca che lo ha tenuto impegnato dal primo giorno e che, in ultima analisi, al di là dei successi, è la quintessenza della sua presenza nella nostra discoteca. “Shot and Echo” è, in parte, una prova interessante. Vediamo perché.
In “Their Duet” una tromba inizia una piccola, privata, marcia trionfale sulla quale la voce di Katelijne van Laethem intesse un lungo, melodioso monologo circolare. “His own thing” è il figlio bastardo di Mertens e di “In Re Don Giovanni” di Nyman, punteggiato com’è dalle esclamazioni delle tube. I moduli componibili e circolari dei fiati si rincorrono senza soluzione di continuità, ossessivi e claustrofobici. In “Watch over me” gli stessi fiati vengono costretti a una impegnativa partitura di staccati ripetuti, ma in loro soccorso accorre subito il resto dell’orchestra (quindici elementi in tutto) per un vivace excursus cameristico non privo di accenti nostalgici che tornano e ritornano sulla medesima melodia come nella mente il ricordo di un amato lontano. Il ponte, in particolare, sorprende con un impasto sonoro reminiscente di “Long, long, long” dal White Album. In “One who matters” viene finalmente dato spazio agli archi, la cui angolosa figura ostinata intesse l’ennui di un pomeriggio domenicale in cui la protagonista, una tromba, passeggia per la città deserta, in attesa che la sua condizione prenda una svolta decisiva.
Su di una lunga, ripetitiva introduzione dei fiati si affaccia, nel brano successivo, una laconica chitarra e la voce piena di vento di Katelijne. “Silver Lining” dura un’eternità e nulla di rilevante accade, e qui è forse l’anima segreta di quest’album. A dispetto del grande agitarsi degli strumenti, delle migliaia di note suonate (un applauso per l'affiatamento esemplare degli strumentisti), si avverte un senso di attesa che permea tutto. Nell’insieme, “Shot and Echo” è una situazione di stallo ricca di suggestioni ma priva di direzione. Una formula diversa dalle precedenti viene tentata in “Shot One”, in cui l’elegante e melodioso giro dei fiati si sovrappone al piano: un ulteriore accostamento per un album incentrato, appunto, sulla ricerca sui timbri. La voce sottolinea e accenta qua e là, appropriandosi del ruolo svolto dalle tube in “His Own Thing” . I fiati – una sezione dell’orchestra molto amata da Mertens – sono di nuovo di gavetta per il tranquillo intermezzo “We’ ll find out” .
In “Let him go”, suonando un riff origliato da una canzone che invito i lettori più ricchi di musica e di memoria di me a identificare, il piano elettrico e le tube sembrano voler giocare a “Michael Nyman suona i Supertramp”, mentre la voce rafforza il formato canzone. Peccato la melodia non sia di quelle memorabili. Un piano cristallino e penetrante inizia la bella “Wandering Eyes”, e subito inciampa in quei saltelli (tecnicamente si chiamano "abbellimenti" e "appoggi") così caratteristici di Mertens. Voce e archi si alternano su una linea melodica più soddisfacente del brano precedente, ma ancora troppo ripetitiva.
Mertens deve aver preso nota della riuscita soltanto parziale del suo impegno, cambiando direzione di lì a poco. Certo, se avesse avuto qualche conoscenza a Radio Vaticana, le cose sarebbero andate diversamente.
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