Sarebbe a mio parere ingiusto recensire un film come "Fino alla fine del mondo" senza raccontare della sua travagliata storia produttiva. Chiedo quindi venia fin d'ora per la lunghezza di questo scritto che cercherà di essere anche tributo a questa pellicola di 158, o 280, minuti…

Corre l'anno 1989 e, forte del successo di critica e commerciale delle sue due recenti pellicole "Paris Texas” (1984) e "Il cielo sopra Berlino” (1987), Wim Wenders riesce finalmente a trovare i finanziamenti per il suo nuovo film, "Fino alla fine del mondo". Si tratta di un'opera la cui realizzazione il regista insegue fin dalla metà degli anni '70 quando per la prima volta si imbatte nel rosso deserto australiano e ne rimane affascinato ritenendolo perfetta location per un ipotetico film fantascientifico.

La fantascienza cinematografica si sa costa, e quindi il progetto rimane per molti anni nel limbo anche perché Wenders in realtà ha sviluppato solo abbozzi di trama piuttosto che una vera e propria sceneggiatura. L'incontro con la compianta Solveig Dommartin (1961-2007), indimenticata trapezista/angelo de “Il cielo sopra Berlino” e sua compagna di allora, scioglie i nodi della vicenda (l'attrice appare infatti nei titoli anche come sceneggiatrice assieme a Wenders e Peter Carey) e, grazie ad un racconto finalmente strutturato da proporre alle case di produzione ed al successo di cui si scriveva prima, il regista tedesco ottiene il cospicuo budget di 23 milioni di dollari, un bel gruzzolo all’epoca (e tutto sommato ancora oggi) soprattutto per un "film d'autore".

A quel punto tutti i cinefili sono in fibrillazione, non solo perché quando in precedenza un grande autore ha incontrato il genere fantascientifico ne è risultato spesso un capolavoro, vedi Lang, Kubrick, Tarkovsky, Siegel, Truffaut, Godard, Scott, Carpenter, Spielberg, e permettetemi anche Lynch (a me Dune continua ad affascinare), ma anche perché viene annunciato un cast internazionale capitanato da William Hurt (richiestissimo all'epoca), affiancato nientemeno che da Max von Sydow, Jeanne Moreau, Sam Neill, la stessa Dommartin e Rüdiger Vogler che ritorna nell'iconico ruolo per i wendersiani di Philip Winter. Alla fotografia un altro fedelissimo, l’olandese Robbie Müller che da sempre significa qualità visiva di altissimo livello. Altro motivo di curiosità il fatto che si annunciano riprese oltre che su pellicola anche su video in alta definizione, allora puro pionierismo cinematografico.

Non bastasse, Wenders contatta 18 tra i suoi artisti/gruppi musicali preferiti chiedendo loro di realizzare un brano per la colonna sonora (di fatto per un film che ancora non è stato girato) immaginando di proiettarsi 10 anni nel futuro in quanto la vicenda sarà ambientata negli ultimi mesi del 1999. Wenders si aspetta che all’appello rispondano in 5 o 6; ottiene invece 17 brani e successivamente imputerà anche a questa inaspettata risposta la durata epica del suo lungometraggio.

Già, perché ben presto ci si rende conto che la lunghezza del film costituirà un problema in fase di distribuzione. Le riprese iniziano a Venezia per poi spostarsi a Parigi, Berlino, Lisbona, Tokyo, San Francisco e naturalmente il deserto australiano. Wenders gira quasi compulsivamente un’enorme quantità di pellicola e i finanziatori iniziano a preoccuparsi; i 23 milioni non bastano più e decidono di “chiudere i rubinetti” tanto che Wenders si trova costretto a simulare in Portogallo gli interni ambientati a Mosca e a mandare la volenterosa Dommartin con una telecamerina a filmare degli esterni a Pechino, altra location prevista dalla trama. La sceneggiatura prevede inoltre di spostarsi in Africa per filmare una tribù di pigmei, ma a questo il regista tedesco è costretto rinunciare del tutto.

Nonostante queste restrizioni, il primo montaggio del film dura 20 ore e a detta dello stesso Wenders è impresentabile. Lavora quindi ad una versione di circa 280 minuti, ma i distributori non ne vogliono sapere e così il regista si vede costretto a mutilare di ben 2 ore la sua opera per portarla alla lunghezza massima che gli è stata consentita di 158 minuti e in questa versione esce finalmente nel 1991 nelle sale.

Gli entusiasmi si spengono. Si ha il senso che la montagna abbia partorito il topolino: accoglienza assai tiepida, aspre critiche al regista e all’interpretazione della Dommartin, delusione dei cinefili nonostante al film venga riconosciuto un certo fascino (e io qui mi ritrovai), inevitabile flop commerciale tanto che la colonna sonora, nonostante i vari brani si possano ascoltare durante la visione per sprazzi di secondi e nulla più, finisce per incassare più del film.

Per quanto articolata la trama si può sintetizzare così (attenzione SPOILER):
Sam Farber (Hurt) viaggia da un capo all’altro del mondo registrando suoni e immagini di vita locale e di propri famigliari utilizzando un pesante visore hi-tech. Nel suo peregrinare incontra Claire (Dommartin) che si innamora perdutamente di lui e decide di seguirlo da una metropoli all’altra per quanto Sam faccia di tutto per far sparire le proprie tracce. A sua volta Claire è seguita dall’ex compagno Eugene (Neill), che cerca di ricucire il rapporto con lei e che si fa aiutare nella ricerca dal detective Winter (Vogler). Ben presto si scopre che il visore di Sam è in grado di registrare gli impulsi visivi che il nervo ottico invia alla corteccia cerebrale e che la sua odissea è giustificata dal raccogliere immagini e messaggi destinati ad essere “visti” da sua madre, affetta da cecità, Edith (Moreau) attraverso un complesso sistema di interfacciamento neurologico sviluppato dal padre di Sam, Henry (von Sydow). Il guaio è che Henry ha in pratica rubato progetto e prototipi al team con cui collaborava negli Stati Uniti che ha quindi messo una “taglia” su di lui costringendolo a nascondersi nelle viscere del deserto australiano per continuare in un laboratorio sotterraneo le sue ricerche utilizzando gli aborigeni come aiutanti e vere e proprie cavie, assieme alla moglie stessa. Nel frattempo un satellite nucleare indiano minaccia di esplodere in orbita a causa di un’avaria facendo temere a tutti “la fine del mondo” (siamo appunto nel 1999).
Svelata quindi la missione e i motivi dell’elusività di Sam, Claire si affianca stabilmente al suo amato fino appunto al suo ritorno in Australia con tutto il materiale registrato; a seguirli Eugene, Winter ed un cacciatore di taglie, tutti bloccati lì perché nel frattempo il satellite esplode e tutti gli apparecchi elettronici, esclusi quelli nella caverna di Henry, smettono di funzionare.
Finalmente è possibile completare l’esperimento riversando le visioni di Sam nella corteccia cerebrale della madre che torna quindi a “vedere” con grande emozione di tutti. Ma Henry non è ancora soddisfatto e la sua ambizione di scienziato lo spinge a tentare di registrare anche gli impulsi cerebrali generati dai sogni in modo da poterli poi visualizzare come dei filmati. Questo però porterà i protagonisti a subire un impatto psicologico devastante.
(FINE SPOILER)

Il film si presenta quindi come un ricettacolo di tutte le ossessioni wendersiane di allora, vecchie (il viaggio come crescita personale, i rapporti familiari irrisolti) e nuove (i rischi legati alla massiccia creazione di immagini, tema che sarà cardine in numerosi suoi film successivi). Ma tutto sembra frettoloso, “tirato via”, i personaggi appaiono e scompaiono senza una logica chiara, le varie città si faticano a distinguere e si susseguono pretestuosamente, la parte australiana, per quanto affascinante visivamente, è piuttosto confusa.

Fortunatamente, potendo ancora disporre del negativo originale, Wenders continua a lavorare sulla sua versione da 280 minuti e la completa dopo circa un anno presentandola poi occasionalmente ad eventi speciali presso festival e conferenze universitarie negli Stati Uniti. A parte queste “leggendarie” occasioni, la versione director’s cut rimane però di fatto invisibile al grande pubblico.

Finalmente nel 2003 la versione lunga viene distribuita in triplo DVD in Germania, Francia e incredibilmente anche in Italia grazie e Ripley Home Video. Alcuni gridano al capolavoro, altri si limitano ad un’alzata di spalle e preferiscono soprassedere visto che dopotutto si tratta della director’s cut di una pellicola fantascientifica uscita nelle sale più di 10 anni prima e ormai paradossalmente ambientata nel passato.

Invece le due ore aggiunte, com’è intuibile, offrono un’esperienza cinematografica molto più appagante. Certo, i tratti fondamentali della trama rimangono inalterati, anche se affiorano interessanti e gustosi sottotesti, ma si comprende che appunto questo Wenders si era trovato costretto a fare nella versione “corta”, ovvero limitarsi a raccontare i fatti principali tagliando tutto ciò che in realtà costituiva l’anima, il respiro del film.

Nella director’s cut i personaggi appaiono meglio delineati nella personalità e nelle motivazioni, l’intreccio appare più comprensibile, i brani musicali spesso si fondono con le immagini creando momenti di grande suggestione, soprattutto nella parte australiana, anche se a mio parere il lavoro più egregio lo svolgono le composizioni di Graeme Revell.

Meno “buttato lì” appare ora lo spazio dato alle ancor oggi ipnotiche e affascinanti immagini “rubate” ai sogni, girate appunto in HD per poter essere poi manipolate digitalmente, manipolazioni che oggi ciascuno di noi potrebbe compiere in pochi minuti sul proprio portatile e che a Wenders invece hanno richiesto (ormai trent’anni fa) lunghe settimane di lavoro con Sean Naughton ed una equipe di tecnici giapponesi (qui però a contare non è la tecnica, ma la capacità immaginifica dell’autore).

Certo, possono rimanere alcune perplessità. Il peregrinare ai vari capi del mondo delle prime due ore, per quanto stuzzicante, può ancora apparire un po’ pretestuoso e non sempre così necessario all’avanzamento della trama. Non aiuta che la figura di riferimento di questa prima parte sia Claire, il personaggio della Dommartin che si rivela interprete ancora un po’ acerba per il difficile compito che le è stato affidato, anche se risulta particolarmente efficace e divertente quando viene messa sotto Pentothal, per ben 2 volte (!)

In compenso, nella seconda parte sale alla ribalta la famiglia disfunzionale messa in scena da Hurt, von Sydow e Moreau ed il risultato è davvero notevole riverberando su tutti gli altri interpreti.

Infine, se il futuro di Wenders sbaglia nell'immaginare che tutti nel 1999 avremo comunicato attraverso videotelefoni FISSI, è invece meravigliosamente preveggente nel mostrare auto equipaggiate con navigatori molto simili agli attuali e l'uso quotidiano di card per eseguire le più svariate operazioni, dai pagamenti alle procedure di identificazione fino alla conservazione e trasporto di file (anche musicali).

Difficile poi, per noi spettatori di oggi, non rimanere colpiti dall'ossessione visiva che ad un certo punto coglie i protagonisti, che vediamo chini per giorni e giorni con lo sguardo fisso su piccoli dispositivi mobili che portano sempre con sé; in questo sì, nei riguardi degli smartphone, il film è preveggente.

All’epoca della pubblicazione della director’s cut, Wenders ha dichiarato che l’ispirazione del film era soprattutto frutto dei suoi timori nei riguardi dell’impatto che una produzione continua e massificata di immagini audiovisive avrebbe avuto sulla psiche di tutti noi, dicendo poi di essersi ricreduto ritenendo che in qualche modo siamo riusciti invece a metabolizzare tale ondata. Con l’avvento odierno dei social network e della compulsività che tendono a generare in molti di noi, non so se il buon Wim è ancora disposto a ricredersi, ma io che sto appunto proponendo una recensione su di un social network scrivendola in parte picchiettando su di uno smartphone, non sono certo la persona più adatta per esprimere un giudizio in merito.

Buona visione.

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