La città è un individuo, e le sue strade sono le sue vene, e lungo di esse si muovono le esistenze di milioni di persone che ogni giorno si alzano dal letto, escono dalla propria abitazione, e abbracciano il mondo in un ciclo che si ripete e ripete. Ognuna con una propria visione delle cose, ognuna seguendo un personale percorso. Ognuna con un proprio universo interiore.
Ognuna facente parte di una piccola o grande comunità, e con un piccolo o grande ruolo all'interno di essa.
Anche se il senso di tutto questo va smarrendosi nei meandri del cambiamento, e sempre più esistenze scorrono nell'inconsapevolezza, nella futilità data dall'incoscienza del vivere in un mondo bellissimo che si dà come per scontato.
E sono diverse le cose che sono andate perdute, ma non ancora per tutti.
Hirayama porta avanti una routine rituale, in cui a seguito del sorgere di ogni alba viaggia lungo una delle vene di Tokyo per recarsi a pulire i bagni pubblici, portando a termine il proprio compito e contemplando ogni piccola meraviglia che comporta l'essere in vita.
è raro che quest'uomo parli con qualcuno, ma non per celare tristezza, per via di una alienazione, indisponenza o perché asociale.
La sua estrema timidezza/riservatezza non è dovuta che alla consapevolezza di appartenere ad una dimensione personale molto diversa rispetto al mondo contemporaneo. In cui il significato profondo di tutto quel che fu analogico, semplice, calmo, in contrapposizione alla frenesia del digitale e della rapida consumazione di rapporti umani e anche lavorativi, è tra quelle cose che si sono già perse nel fuoco. Con quelle rare anime che sente, in qualche modo, a lui affini o comunque comprensive, invece si apre. Come nel caso della nipote, e soprattutto del marito della locandiera che egli guarda con un innocente e puro sguardo affettivo.
La vita moderna viene consumata senza essere mai veramente stata vissuta, salvo magari rendersene conto un attimo prima che questa ti venga portata via senza preavviso.
Wim Wenders, oltre ad essere forse il più grande amante dell'opera di Yasujiro Ozu - il massimo cantore delle stagioni della vita e della fine delle tradizioni, con l'avvento della modernità -, cita tra le sue opere cinematografiche preferite l'immortale capolavoro di Kurosawa, Ikiru. Vivere.
Questo film del '52 parte proprio dal momento in cui un uomo, appresa la notizia della sua inguaribile malattia, inizia per la prima volta a vivere, per il poco tempo che gli è dato. Mi immagino il personaggio del marito, di cui sopra, come pronto a sua volta ad assaporare la gioia delle piccole cose, prima di dover lasciare questa terra.
In un ultimo viaggio, magari, come fu per Nishi e la moglie in Hana-bi, l'inarrivabile vertice della filmografia di Takeshi Kitano.
Wim Wenders con Perfect Days omaggia la cultura, il cinema, la terra di Ozu, Kurosawa, Kitano, Mizoguchi. La terra che fu di Mishima, e che un altro grande del cinema occidentale, come Paul Schrader, già volle rappresentare attraverso il suo sguardo sulla ritualità, l'autodisciplina, la metodica. L'ordine piuttosto che il caos.
Perché potersi svegliare, guardando fuori dalla finestra, e osservare infine il proprio mondo di sempre, sapendo che è ancora lì con te, ad accoglierti, sia col sole che con la pioggia, fa tutta la differenza possibile.
Perché il senso della routine è anche il senso della circolarità e della pace, del rifugio, rispetto a tutto quel che scorre, cambia, si dissolve nel vento, nel tempo e nello spazio. Rispetto a tutto quel che passa.
Giocare a rincorrere e afferrare l'ombra dell'altro, è proprio come giocare a fermare e bloccare quel che per natura non si più fermare, in quanto ineluttabile. Puoi calpestare l'ombra per un secondo, prima che anch'essa torni a muoversi, proseguendo per la sua strada. Come il corso delle stagioni, come il passato che lascia posto al futuro.
Quella ombre siamo noi stessi. Qui per un attimo.
Perfect Days è la consapevolezza di questo, e la felicità di essere vivi in ogni caso. La stessa di Paterson di Jim Jarmusch o di Soul di Pete Docter, il più bel film della Pixar.
Brad Pitt al termine di Ad Astra dice qualcosa di estremamente significativo.
"Siamo tutto quel che abbiamo"
L'unica vita di cui possiamo disporre è qui e ora. Seppur ci venga portata via un respiro alla volta, come il tempo del presente.
E se la si può passare ascoltando una musicassetta, quel suono sconosciuto a chi oggi ha vent'anni, è bellissimo. E se si può bere un caffè insieme, sfregarsi le mani sentendo il calore della propria pelle, è meraviglioso.
In fondo, Peter Falk ne Il Cielo Sopra Berlino, nel suo dialogo con Damiel, l'angelo che solo lui può vedere e percepire in quanto suo simile che non ha ancora rinunciato alle ali e all'immortalità, già esprimeva ogni cosa. E quella, oltre che la più bella scena di tutta l'opera di Wenders, è tra le più belle della storia del cinema.
I dialoghi sulla percezione, che Wenders ha messo in scena attraverso i suoi film, le sue fotografie, le sue interviste, non sono ancora terminati, e speriamo che possano continuare ancora a lungo.
Nella consapevolezza che tutto scorre, come nelle cascate di Happy Together di Wong Kar-wai. E che, anche se vorremmo che tutto restasse così per sempre, "se mai niente cambiasse, sarebbe veramente assurdo". Sarebbe presuntuoso azzardare un giudizio di merito, asserire che questo sia giusto o meno. Come direbbe Anton Chigurh, è così e basta.
Ma intanto:
It's a new dawn
it's a new day
it's a new life for me and i'm feeeling good
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