"Likferd", ovvero “funerale” nel dialetto norvegese Sognamål, un titolo quasi ironico per un album rilasciato l’anno precedente la morte per ipotermia di Valfar, lo sfortunato fondatore dei Windir, gruppo metal che non sopravvivrà al suo creatore. I Windir, “guerriero” in norvegese, sono stati uno dei pochi gruppi veramente interessanti ed originali all’interno di un filone troppo facilmente esauribile, fotocopiabile e sterilmente riciclabile come il metal estremo.

La musica suonata è essenzialmente un viking metal con dei forti innesti black. Tali influssi si manifestano nell’aspetto esteriore della band (con face painting e soprannomi assurdi) oltre che nella musica Si tratta però di un black metal privo dei suoi aspetti più ostici ed estremi; perciò niente ritmiche monocordi e zanzarose, blast beat costanti ed enigmatiche cacofonie: troviamo solo scream potente e lacerante, forza, velocità, violenza ed un senso di epicità unico. Su questa base, concepita e suonata a dovere (si sente anche il basso una volta tanto), i Windir sono riusciti a lasciare spazio per il loro personale gusto melodico che si esprime in passaggi di voci pulite, sintetizzatori e fisarmoniche, spesso ammiccando alla musica folk norvegese. Le parti più melodiche non si trovano solamente in break e parti isolate, ma spesso e volentieri amalgamate alle sonorità più violente, oscure ed impetuose. Può servire più di un ascolto per scorgere la melodia dipinta su questa base oscura e turbolenta. Gli stessi testi sono composti oltre che in inglese per la maggior parte in norvegese, con parti in dialetto sognamål ed in antico norreno, a testimoniare l’attaccamento profondo del gruppo per la loro terra natale. Si guardi inoltre la superba copertina, tratta da un quadro del XIX secolo.

S’inizia con Resurrection of the Wild, canzone potente caratterizzata da voci pulite in grado d’immergere subito l’ascoltatore in un turbine di emozioni: si percepisce un forte senso dell’epico, orgoglio, fierezza ma anche tristezza e malinconia. Le varie canzoni non si distaccano troppo come stile l’una dall’altra, ma riescono a non sembrare mai l’una la fotocopia dell’altra, notevole l’inizio di fisarmonica di Fagning, la potenza vichinga (non saprei come definirla altrimenti) di Martyrium e Despot, l’oscurità della violentissima On the Mountain of Goats e la semplice bellezza della conclusiva Ætti Mørkna.

Si tratta comunque di un’opera di difficile ascolto, sconsigliata ai neofiti e rivolta agli appassionati del genere: un ascoltatore occasionale come il sottoscritto ha dovuto faticare molto per poter finalmente apprezzare questo disco in tutta la sua grandezza.

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