Winton Marsalis è un trombettista jazz coi fiocchi e i controfiocchi. Nato a New Orleans agli inizi degli anni '60, padre pianista, cresce nelle atmosfere funk, pop e rock della sua città. Fin da piccolo abbina alla parola jazz a oscuri e fumosi club pieni di allegria di gente da strada, ben distante dunque dal rigido stile di vota che la sua famiglia osserva. E chi gli fece cambiare idea? Il grandissimo Art Blakey. Proprio nei Jazz Messenger, Marsalis affinò la sua incredibile tecnica.

Pensate a Miles Davis adesso. Il grande ed eclettico trombettista, da sempre modello per Winton, non si adattò mai alle esigenze della sua casa discografica. Davis preferiva infatti la libertà di espressione, la ricerca di un'estetica a molti poco chiara. Davis non raggiunse mai gli obiettivi che si era prefissato. Marsalis fece esattamente il contrario, seguendo le esigenze del "colosso discografico". Prodigio musicale, bell'aspetto, sempre pronto a confutare la tradizionale idea che il buon jazz, senza alcool e droghe non esiste.

Winton è sempre stato uno studioso, non ha mai discriminato nessuno stile ed ha sempre pensato a coltivare tutti quegli aspetti che portano alla "sensibilità dell'artista completo".  Un jazzista classico, o un jazzman che sa fare musica classica. Deciso nel ricercare espressioni, se nei primi album la sua estetica poteva far risalire a Davis (prevalenza del Marsalis strumentista), nei successivi si diletta a comporre e si sposta su sapori alla Duke Ellington. In The Majesty of The Blues si può afferrare quale sia il vero interesse musicale di Winton.

E' un album del 1988, che dà le spalle all'hard bop del precedente lavoro (J. Mood) e devia verso tutte le influenze assimilate in passato, dimostrando i risultati della una lunga riflessione di un artista che ha appreso dagli standard ed ha fatto propri stilemi e strutture. Infatti in questo disco si avverte una sorta di ritorno alle origini, sentire "Hickory Dickory Dock", per poi passare a pezzi che "aprono" a nuove estetiche, come la suite "The Death of The Jazz".

Sul pezzo di apertura, che dà il titolo all'album, Marsalis fa la parte del pittore avanguardista e sforna assoli surreali ed incredibili, con dissonanze piene di valenza drammatica, fino a percepire una sorta di influenza sudamericana spagnoleggiante.

Un lavoro d'avanguardia. Magari il pezzo di chiusura, che è diviso in 3 parti (di cui una è un vero e proprio sermone ortodosso) può risultare eccessivo. Ma che musica ragazzi!

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