Ho pensato a come iniziare questa recensione più o meno un migliaio di volte.
Ho preso appunti, scarabocchiando frasi ad effetto su ogni brandello di carta che mi capitasse sotto mano, e ho cercato metafore suggestive e improbabili, sperando che fossero in grado di rendere al meglio le sensazioni, i colori, la "magia" che pervadono un disco dei Witchcraft.
Queste stesse poche righe dimostrano quanto i miei sforzi siano risultati vani: le mille idee che mi hanno "vagabondato in testa" per giorni sono rimaste sgorbi su uno dei tanti file word sedotti e abbandonati nel doppio fondo del mio hard disk.
Qualche giorno fa, però, mi sono ricordato di un passaggio di un'intervista a non ricordo più chi, letta chissà quando, da chissà quale parte: "Il nostro non è più il tempo dei Fellini. I nostri sono gli anni dei Gus Van Sant che rifanno Psycho fotogramma per fotogramma, ma iniettandovi una piccola vibrazione di rinnovamento".
Ora, so di non essere granché come "ragionatore di musica", eppure credo che qualcosa del genere possa valere anche per la produzione dei Witchcraft. Come prigionieri di un incantesimo che li abbia tenuti sopiti per più o meno quarant'anni, i quattro di Orebro (Svezia) si sono risvegliati nel terzo millennio, in tempo per recuperare dall'oblio i formulari degli antichi maghi oscuri del rock anni '60/'70, riproponendone gli incantesimi con la dedizione dell'apprendista fidato e capace. Vittime del pungiglione di una strega cattiva, paiono voler continuare a danzare, incuranti delle avanguardie e dello sperimentalismo a tutti i costi, al suono di una musica alchemica, cristallizzata in una dimensione spazio-temporale ancestrale e pagana, in cui l'hard rock, il folk e il blues si vestono di fascinazioni oscure ed ammalianti.
Giunti ormai al terzo full length, decidono di arricchire ed impreziosire i fin troppo espliciti rimandi al doom esoterico di matrice Coven-Sabbathiana che caratterizzavano i precedenti lavori e iniziano a tracciare un sentiero che, pur correndo parallelamente ai grandi nomi del passato, possa condurre proprio a quella "piccola vibrazione di rinnovamento".
Ecco allora che, accanto al culto spudorato per il Sabba Nero ("Hey Doctor"), tra il ribollire magmatico delle ritmiche doom, emergono ammiccanti e fugaci battiti di ciglia all'hard rock dei Deep Purple e al blues dei migliori Cream ("Leva"). Ecco che il sipario dell'acida abrasività delle distorsioni si apre sempre più spesso per lasciare il palco ad eleganti intermezzi folk ("Samaritan Burden" e la splendida title track) e ad una rinnovata eterogeneità strumentale (si senta, per tutte, il sax nella coda di "Remember" o l?hammond indiavolato di "If Crimson Was Your Colour").
Il risultato sono sette liturgie pagane belle come una donna che balli intorno al fuoco senza sapere di essere vista. Sette riti in cui si celebra il rock anni '60/'70, non solo riproponendone gli stilemi e le soluzioni, ma cercando anche di rievocarne in pieno lo spirito, l'attitudine.
Sette fiabe della cattiva notte in cui la voce altera e seducente di Magnus Pelander (ideale via di mezzo tra l'Ozzy più ispirato ed un novello Jim Morrison della foresta incantata), ci dice di non chiudere gli occhi e di avere paura.
Perché tutto andrà male.
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