Chi avrà inventato il concerto per pianoforte ?
Leggendo qua e là sembra che le opinioni dei musicologi non siano proprio unanimi.
Tra gli antenati più accreditati ci sono i Concerti per clavicembalo di Bach, annunciati a loro volta dal Quinto Concerto Brandenburghese, con quel suo straordinario "assolo" in cui il nonno del pianoforte per alcuni minuti si libera come d'incanto dalla prigione di archi in cui lo aveva sempre rinchiuso la musica barocca.
Sarebbe un'origine nobile, oltre che l'ennesima prova che la musica deve a Bach quanto una religione al suo fondatore, come dice Roman Vlad. Sia come sia, la successiva evoluzione di questo affascinante genere è in gran parte merito di Wolfgang Amadeus Mozart, che alla fine del '700 pone le basi per una straordinaria fioritura di concerti per pianoforte che si protrarrà per tutto il secolo successivo.
Anche le cifre sono notevoli: 27 concerti nell'arco di una vita brevissima, e ancora di più impressiona la qualità costante che convive con questa abbondanza, ma questo per Mozart è normale. Lo stile invece cambia gradualmente: i primi concerti sono semplici, brillanti e spensierati, con eleganti ornamenti settecenteschi, gli ultimi sono complessi, inquieti e profondi, pieni di turbamenti che preannunciano il Romanticismo. La "musica per contesse" di alcune opere giovanili, deliziose e formalmente perfette, ma un po' inconsistenti, è dimenticata per sempre. L'ex bambino prodigio che stupiva l'Europa con la sua abilità si è trasformato in un compositore adulto, serio, e il bello è che da tutto questo a Mozart ricaverà più che altro svantaggi, perché la dittatura delle mode effimere è sempre esistita, e anche alla fine del '700 chi proponeva qualcosa che andava oltre il gusto corrente rischiava di trovare i teatri vuoti. Per poter suonare una volta in pubblico l'ultimo concerto, il delicato K 595 (n° 27) Mozart dovette fare da apripista per il concerto di un (allora) famoso clarinettista, tale Beer, proprio come oggi fanno le band minori che introducono le rockstar più note. Ma si era già nel 1791, ultimo anno della sua vita.
Nel 1785 invece anche nella volubile e modaiola Vienna c'era un gran numero di persone interessate alla sua musica, e questo fu un valido incentivo per produrre concerti a raffica, come si poteva permettere di fare solo un mostro che scriveva musica con la velocità con cui la gente normale scrive appunti. Di quell'anno è uno straordinario trio di concerti, bellissimi quanto diversi tra loro: il K 466 in re minore (n° 20), e il K 482 in mi bemolle maggiore (n° 22) sono i due presenti in un eccellente disco della Decca, suonato con il consueto tocco impeccabile e pulitissimo da un grande Vladimir Ashkenazy, che in questa occasione dirige, dal pianoforte, l'ottima Philharmonia Orchestra di Londra. Sembrano messi insieme nello stesso disco per dimostrare quanto lo stesso artista nello stesso anno possa parlare due lingue quasi estranee tra loro.
Fin dall'inizio il Concerto K 466 in re minore promette suggestioni tenebrose e a tratti diaboliche: il suo linguaggio, e anche la tonalità, insolita per Mozart, sono gli stessi del Requiem e dell'inquietante finale del Don Giovanni. Il primo movimento ("Allegro") si apre con minacciose impennate dell'orchestra, a cui tenta di opporsi invano il pianoforte con un tema un po' più cantabile, ma terribilmente mesto, e questa specie di lotta prosegue con vari e fantasiosi sviluppi in una tensione sempre crescente, finché l'orchestra non tace per lasciare spazio ad una vorticosa "cadenza" (che più o meno equivale ad un assolo) di note a discrezione del solista, anche se ormai quasi tutti usano quelle, stupende, espressamente scritte da uno dei primi pianisti che suonarono questo concerto, un certo Ludwig Van Beethoven, che presto avrebbe fatto parlare di sé. Chi spera di rilassarsi con la successiva "Romance" non si inganni: il nome è invitante e l'inizio è un chiacchierio idilliaco tra pianoforte e fiati, di finezza cameristica, ma all'improvviso l'incanto viene rotto da una micidiale grandinata di note, un possente e drammatico "ponte" centrale che solo a poco a poco finisce per placarsi, con il ritorno al delicato intreccio iniziale. L'ultimo movimento, "Allegro assai" inizia in modo pirotecnico, sprigionando un'energia tremenda, e prosegue con vertiginose evoluzioni del pianoforte e dell'orchestra, per far intravedere solo nelle battute finali un barlume di serenità. Il Concerto K 466, oltre ad essere il mio preferito tra quelli mozartiani, è un "unicum" nel suo genere, concepito con qualche decennio di anticipo sui tempi.
Molto più convenzionale il Concerto K 482, nella maestosa tonalità di mi bemolle maggiore, assai frequente nelle opere di Mozart. Bellissimo, ma di una bellezza più armonica, luminosa, che si esalta nei vigorosi scoppi di trombe e timpani dell'"Allegro" iniziale, alternati ad una grande varietà di motivi cantabili. Tuttavia anche qui l'inquietudine preromantica è in agguato, concentrata nell'"Andante" centrale, in cui un tema già di suo malinconico è la base per una serie di variazioni via via sempre più intense, che poco prima della fine arrivano a strappare qualche lacrima. Anche qui si apprezza la maestria di Mozart nella creazione di raffinatissimi dialoghi tra pianoforte e fiati. Il finale ("Allegro - Andantino cantabile -Tempo primo") è composto in realtà da due movimenti: un brioso e sereno Allegro che incorpora più o meno a metà un delizioso lento (l'Andantino cantabile) per poi riprendere con l'energia di prima e concludere in gloria questo altro capolavoro, molto meno noto e suonato del primo.
Un solo disco per due Mozart diversi, quasi estranei, accomunati solo da una perfezione disumana, naturalmente nel senso buono.
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