Io di musica classica non so un accidente. Ne ho ascoltata tanta, ma ho sempre mantenuto l’occhio dell’ignorante ammirata.
La premessa è necessaria, perché voglio affrontare qualcosa di inarrivabile, ma non ho gli strumenti per farlo.
Obiezione ovvia: ma allora perché non taci?
Tanto più che l'opera è già stata recensita ben due volte: è proprio necessario insistere?
La risposta è ugualmente semplice: perché il “Requiem” di Mozart è una pietra angolare del mio mondo, e quello che penso non è ancora stato detto.
Così, sono quasi costretta a guardarlo, come si guarda il monolito di “2001 Odissea nello spazio”.
A farci i conti. Mi tremano i polsi, ci credete?
La Messa da Requiem K626 in re minore di Mozart è datata 1791: l’anno della sua morte.
Qualcuno la concluderà (in particolare Xavier Sussmayer), ma la stesura originale arriva fino al settimo passaggio: il “Confutatis”.
Parte integrante del fascino dell’opera è un non trascurabile dettaglio: trattasi di messa da requiem scritta da uno che è morto prima di finirla. Le leggende si sprecano, Mozart era in miseria e malato e ricevette da uno sconosciuto committente il compito di realizzare un “Requiem”. Milos Forman in “Amadeus” ha dato una sua romanzata versione di questa storia, ma per la storia ufficiale il committente misterioso rimane avvolto nell’ombra. Il risultato finale è uno solo: Mozart finì per scrivere un Requiem per sé stesso.
Voglio recensire quest’opera d’arte su Debaser per un motivo preciso: per me il “Requiem” è il primo disco dark della storia.
Da “Dies irae” a “Rex tremendae” fino all’incredibile finale dipinto dal “Confutatis”, sento che quest’opera è il Tetragrammaton della musica più cupa. Il “Confutatis” crea il primo vero ritornello gothic della storia: “Confutatis maledictis, flammis acribus addictis”.
Sotto, l’orchestra disegna qualcosa di macabro e cantabile che oggi, forse, chiameremmo un “riff”.
Una frase strumentale ripetuta e perfetta.
Roba nera che nemmeno i Christian Death… nessuno riuscirà mai a fare di meglio.
Senza il “Requiem” non sarebbero stati concepiti “Marble index” e “Desertshore” di Nico, senza il “Requiem” non avremmo avuto Ian Curtis, Michael Gira, Douglas Pierce, David Tibet. Non sarebbe stato concepibile “Faith” dei Cure.
Non dico che questi autori siano passati dall’ascolto di Mozart, non è detto. Ma esistono gli archetipi, il mondo delle idee e il mito della caverna. Tutti questi autori raccontano, senza volere e a loro modo, la tremenda corsa verso la fine del giovane Mozart, il suo precipitare in una fossa comune, la sua morte in miseria. La catastrofe di una sensibilità incompresa.
Il “Requiem” è paura e nebbia, senso di fine imminente, precipizio. Un anno dopo l’Europa conoscerà il trauma assoluto della Rivoluzione Francese, il bagno di sangue del Terrore, la ghigliottina come nuova divinità perfetta e terribile. Niente sarà più come prima. Tra l'altro Madame Du Barry, mio pseudonimo, verrà condannata alla ghigliottina l'8 dicembre 1793, due anni e tre giorni dopo la morte di Mozart.
C’è un solo disco, nei decenni seguenti, che riesce a contenere la stessa forza drammatica e lo stesso senso di epitaffio: “Closer” dei Joy Division, uscito dopo la morte di Ian Curtis.
Mi piace pensarli, Wolfgang e Ian, in qualche modo insieme, nella più assurda delle jam-sessions.
Ubriachi e felici, finalmente.
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