Dopo un primo album bello, un secondo magistrale e meraviglioso (quel two hunters che li presentò al mondo, non solo metallaro!), un terzo lavoro un po' fosco e azzardato nel voler inbastardire il suono forse troppo, inficiando non poco il lato più sperimentale, ambientale ed atmosferico (dato non da poco, visto che li rese così unici alle orecchie di tutti gli attenti), arriva il terzo capitolo della saga forestale (il primo era per l'appunto quel two hunters di cui parlavo prima, tralasciando il primo vero album "Diadem Of 12 stars"), e come previsto le sorprese non mancano, anzi si moltiplicano all'ennesima potenza, le intuizioni passate vengono rilette alla chiave di una psichedelia ambientale e lancinante mai così in evidenza, con un uso di tastiere pompato sopra ogni aspettativa, ma che va a colorare ancor di più il quadro rendendolo meravigliosamente cangiante: Celestial Lineage, inutile negarlo con false ipocrisie da scribacchino incallito e intento a sparare e sparare su tutto e tutti, è quel capolavoro che ci si aspettava da loro, l'ultimo tassello di un viaggio sonico e armonico che ha fatto non pochi proseliti da quando i suoi passi furono impressi nella terra umida e stagnata della foresta più cupa e impenetrabile, e nei cuori di noi comuni mortali.

Celestial Lineage si fa carico di un suono che ormai trascende la catalogazione, si accosta alla divinazione sensoriale con momenti di catarsi, rilascio, e sacralità difficili da emulare. Il duo che li compone, fratelli di sangue, Weaver brothers per l'appunto, lasciano, per fortuna, da parte, la raffigurazione di immane rabbia, un po', a dir il vero, monotona del precedente platter per riprendere il discorso proprio dove il secondo disco capolavoro si chiudeva, imbottento tutto con una maturità stilistica e artistica qui ai massimi livelli, e con suoni ancor più ampi e protratti verso l'infinito spazio cosmico che ci sovrasta: canti chiesastici, sacralità, immagini sfocate, danze paniche, folklori imbevuti di psichedelie prese da certo Kraut-rock (come affermato dai diretti interessati le influenze principali per questo nuovo lavoro sono state ricercate ingruppi storici e fantastici come i Popol-Vuh, e si sente!), metallo nero bagnato nelle gelide e umide nottate invernali di campagne  nordiche, sperdute tra immani distese di terra e fango. Pensate ad un Burzum, intento a suonare gli Emperor di "anthem to the welkin at dusk", con in mente la lezione immortale di band come i magistrali Dead can Dance, i sopracitati Popol-vuh, con una spruzzatina di cosmic music alla Tangerine Dream; bel quadretto no? Beh, i Wolves in the throne room vanno ancora oltre, si spingono ancora avanti, portano la loro personalità ad un livello magistrale, imbevendo tutto di una magia strana, tentacolare, grigia, malinconica, che cattura, riempie l'anima di colori autunnali come pochi altri lavori ultimamente hanno saputo fare, e si va a collocare dritto negli album più belli del nuovo millennio, quelli che verranno ricordati, quelli che verranno ancora una volta, in futuro, raccontati, riascoltati e ancora una volta adorati.

Ovviamente è un lavoro tutt'altro che semplice (i colori qui esposti sono così tanti da non poter essere apprezzati con ascolti casuali e frammentati, bensì con ascolti attenti, magari in cuffia, al lume di una flebile fiamma di candela), ma consiglio vivamente a tutti l'ascolto di quest'opera d'arte.

Il mondo ha bisogno di loro, la musica ha bisogno di loro, l'aria stessa ha bisogno delle loro vibrazioni, ed io l'assecondo, assecondo il mio animo e l'aria che mi sta intorno premendo play nuovamente, facendo ripartire il viaggio: questo meraviglioso viaggio che parte dal cuore per espandersi nell'universo tutto.

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