Jasmine a New York era un'oziosa nullafacente dell'altissima borghesia. Una di quelle caviale, champagne e abiti firmati da mostrare alle amichette oche nella propria tenuta da benestante. A lavorare c'è il marito Hal, uno che scommette sull'alta finanza truffando i poveracci e facendo i tanti soldini che permettono alla moglie di starsene a casa a trastullarsi nel lusso. Ma Hal gli mette le corna con qualsiasi cosa respiri, poi viene beccato e finisce in carcere, si suicida e Jasmine va fuori di testa, fugge a San Francisco e cerca di ricominciare tutto daccapo con la sorellina che aveva accantonato per lunghi anni della sua vita.

Il caro vecchio Woody continua a partorire un film l'anno e Blue Jasmine è tra i suoi ultimi quello che più merita, forse il migliore dalla sferzante commedia Basta che funzioni con un Larry David d'antologia. Con Blue Jasmine la Blanchett si è portata a casa il suo secondo Oscar dando voce e corpo ad una donna odiosa e fragile allo stesso tempo, la classica mezza svampita che vuole solamente ostentare la propria abbienza e che calcola come esseri inferiori tutti quelli che non possono permettersi Bentley o foulard di Hermes. Ed ecco che nonno Woody contrappone la spacconeria altolocata di Jasmine alla normalità "proletaria" di sua sorella Ginger (Sally Hawkins) che trova felicità nelle piccole cose e in amori turbolenti come quello per Chili, quel Bobby Cannavale già ammirato in Bordwalk Empire e ultimamente anche nella serie Vinyl, anch'essa come BE creatura della HBO.

Allen porta sullo schermo queste due diversità di concezione: chi si scola Martini e Gin e chi altro non può permettersi che squallide birre, chi ricerca nell'immagine il proprio status sociale e chi non se ne cura affatto. Due mondi diversi, opposti e in parte contrapposti che sono le due anime dell'America di Allen, lui che non ha comunque problemi a votare per la Clinton e quindi a schierarsi politicamente con un certo mondo. La collisione di questi due diversi modelli è un aspetto interessante di Blue Jasmine, una sorta di sguardo sociologico sull'America contemporanea e la sua voglia di cambiare e di sapersi adattare ai cambiamenti. Allen centra il punto ma poi, come spesso gli accade e ancor più ultimamente, si abbandona a clichè che ripropongono la solita solfa: il ricco vuole solo l'amore del ricco, il proletario vuole solo l'amore del proletario e via così in una descrizione a "blocchi" della società che è sempre più lontana dalla realtà. Ciò che però rimane è la sensazione che nella sua ostentazione dell'immagine, dello status, del proprio prestigio, la borghesia americana si stia sfaldando, lasciando di se la sola rappresentazione specchiata delle proprie apparenze. In questo panorama complessivo l'inquadratura finale diventa riassunto di un pezzo di società e di un'analisi cinematografica che Allen aveva iniziato già anni e film addietro. Tutti possono essere sconfitti. La scala sale e scende.

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