Paladini indiscussi della seconda era del metallo epico (iniziata all’inizio del XXI, grazie anche all’avvento di analoghe e connazionali realtà quali Doomsword, Assedium e Holy Martyr), i milanesi Wotan presentarono nel 2007 questo strabiliante Epos. Lavoro che attenua in parte l’estasi guerresca del precedente Carmina Barbarica, per esibire un carattere più romantico e ragionato nonché maggiormente complesso e altresì più affascinante, dal punto di vista artistico. Ovviamente siamo distanti dall’immediato incanto di brani come Lord of the Wind o Under the Sign of Odin’s Ravens, ma è altrettanto vero che dopo i dovuti ascolti, la profondità dell’album s’insinuerà fluidamente tra i vostri neuroni, mostrandovi la sua vera essenza e svelandovi poco a poco tutte le emozioni patinate nei sessanta minuti di questo fulgido gioiello.

Malgrado la premessa, l’opener torna a proporre i Wotan più barbarici, così come li avevamo lasciati nel precedente disco: Drink in the Skull of Your Father alterna sfuriate heavy/speed a evocativi e cadenzati intermezzi, mentre la cavalcata The Quest for the Grail ci fa rivivere il mito dei Templari, con l’ausilio di un’interpretazione gloriosa e solenne del singer Vanni Ceni. Addentrandoci nel cuore del disco, andremo poi a scoprire le composizioni più particolari e raffinate, come l’incontaminata Mother Forest, ballad introdotta da un solo di piano, eseguito da un guest di tutto rispetto come Ross the Boss (autore anche del guitar solo della suite finale). Ottima anche la rivisitazione della ballata irlandese Foggy Dew, per la quale usare il termine “cover” sarebbe inappropriato, poiché i Wotan l’anno trasformata in un massiccio e convincente epic/doom impreziosito dall’avvolgente suono delle cornamuse (strumento che comunque non invade la genuinità metallica del brano). Di sicuro impatto inoltre La Chanson de Roland, mastodontica suite della durata di quindici minuti, in prevalenza cadenzata e rocciosa, dove il veemente drumming sembra citare le parti per timpano della Conan the Barbarian soundrack di Basil Poledouris, oltre che snodarsi in parti adrenaliniche e cavalleresche, e ancora in strumentali elettroacustici sgorganti di classe e malinconia. E quando pensiamo che la band abbia già piazzato la ciliegina sulla torta, ecco giungere i dieci minuti finali di Ithaca, brano ispirato dall’eredità omerica, o più specificatamente narra del ritorno in patria di Ulisse, sovrano greco reduce dalla guerra di Troia. Introdotto da un mid-tempo grezzo e potente, il brano si tramuta poi in un concentrato d’intense emozioni, con un outro acustica dal retrogusto salino, che chiude poeticamente questo splendido disco.

Con ogni probabilità Epos farà felice ogni appassionato di epic metal di questo pianeta. Per tutti gli altri, è invece suggerito un approccio più cauto: il consiglio è di andare a recuperare prima i capolavori delle band storiche (Manilla Road, Cirith Ungol, Dark Quarterer), al fine di apprendere le basi del vero metallo epico, fondamentali per tutti quei novizi che un giorno oseranno smarrirsi fra le ammalianti trame di questa straordinaria opera d’arte.

Federico "Dragonstar" Passarella.


Carico i commenti...  con calma