Dieci sono le pietre, come i comandamenti. Il nostro visionario predicatore David Eugene Edwards ci sbatte in faccia la sua arte di frontiera, una musica che emana un afflato poetico di rara intensità. Surreali esalazioni della notte più oscura si espandono nel ventre dell’America rurale. Il folk che incontra il lato più torbido e angosciante del rock.

Dagli esordi con gli indimenticati 16 Horsepower fino all’attuale progetto Woven Hand, questo invasato crooner ha seguito con determinazione il proprio percorso sperimentale, alla faccia di ogni logica commerciale. La sua musica è come un’avventura percettiva, esplorazione del microcosmo dell’anima, dove suoni ed emozioni convogliano in un’unica via di fuga. Avrei potuto prendere in esame una qualsiasi opera dalla discografia di questo artista, data la qualità assoluta di ciascuna, ma ho scelto questo “Ten Stones”. Perché l’ho fatto? Probabilmente per la sua maggiore varietà stilistica. O forse perché è un lavoro meno cerebrale dei precedenti, più energico ed elettrico. O magari solo perché si avvicina maggiormente al mio gusto musicale e tanto mi ricorda la genuinità di quel capolavoro che fu “Secret South”. Ad ogni modo, ci sono tutti gli ingredienti caratteristici di Woven Hand: la riscoperta della musica e degli strumenti della tradizione popolare, i fantasmi della dark wave anni ottanta, le nebbie di feedback a contrapporre una moderna aggressività, il tutto sublimato dalla sua poetica allucinata a metà strada tra Nick Cave e Tom Waits.

In questo disco Eugene esalta la propria anima rock, che prende forma nelle distorsioni adrenaliniche di “The Beautiful Axe” e “Not One Stone”, che si rivelano tra i brani più riusciti del lotto. Non mancano però i momenti più acustici, tra ballate introspettive (“Cohawkin Road”) e arpeggi indolenti (“Horsetail”). Il blues elettrico di “White Knuckle Grip” a sollevare polveri psichedeliche, che confluiscono nei canti sciamanici della mistica “Kingdom of Ice”. C’è spazio infine anche per una folle ma riuscita cover di “Quiet Nights Of Quiet Stars”, di Carlos Antonio Jobim, stralunata bossanova che puzza di zolfo. Sono pochi i raggi di sole che riescono a penetrare le maglie di questo lavoro e ciò lo rende un ascolto non facile, di lenta assimilazione, probabilmente non per tutte le stagioni. Musica che non traccia confini né cerca una meta, ma si insidia dentro ognuno di noi, subdola e irresistibile come nicotina. Ma è quanto di più profondo ed ispirato io sia riuscito a trovare nel moderno cantautorato.

Dieci sono le pietre, come i comandamenti. Le canzoni però sono undici. Eugene mi ha fregato anche questa volta.
 

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