Qualche settimana fa, mentre facevo il repulisti giornaliero della mia mail da una vagonata di spam (l’anti-spam non serve a una mazza), mi è capitato sott’occhio in mezzo ad asini che volano e il resto un messaggio da Rolling Stone; in condizioni normali non l’avrei mai letto, se non avesse avuto “Wu-Tang Clan+Fugazi” nell’oggetto. Ma siccome sono facilmente suggestionabile, da brava femminuccia, l’ho aperto e seguito, dal mio indirizzo mail al sito di Rolling Stone, e da lì a qui.
Mi trovo davanti una copertina à la 13 Songs versione gialla e inizio a temere fortemente l’effetto di una qualche forma di strana commistione: nella migliore delle ipotesi, come da tradizione, potrò sempre maledire in pubblico chi ha avuto l’idea, soprattutto se mi ha toccato “Turnover”; anche se, a rigor di logica, “Turnover” non ci dovrebbe stare (e non ci sta, sospiro di sollievo). Metto su le cuffie e mi preparo al peggio. I mashup(s) sono una bestia strana. In realtà invidio da morire la gente che riesce a pensarli, almeno fino a quando non si rivelano delle cagate assolute: fare un mashup significa, innanzitutto, avere un orecchio molto allenato, molto di più di qualunque uomo della strada, un buon grado di fantasia ma -soprattutto- equilibrio musicale (miscelare Britney Spears con i B52 NON è una buona idea). E Cecil Otter e Swiss Andy ce le hanno tutte queste cose, e ci lavorano sopra per un paio d’anni, anche se leggenda vuole che il buon Cecil stesse covando tremenda vendetta da tempo immemore, a quanto pare da un lontano concerto dei Fugazi durante il quale fu sbeffeggiato in pubblico da Guy Picciotto in persona per avere diviso, nell’attesa del concerto, un cono gelato con un amico (pare che i due alternassero le leccate: andiamo, chi non l’avrebbe preso per il culo?).
Due anni passati ad ascoltare e riascoltare l’intera discografia dei Fugazi col progetto di infilarla in qualche modo nei pezzi del Wu-Tang, un singolo (“Sleep Rules Everything Around Me”) lanciato in rete in anteprima giusto in tempo per solleticare la curiosità degli aficionados e a luglio esce forse il miglior mashup che si sia mai ascoltato, ed uno dei dischi dell’anno.
Problema numero uno: il titolo. "13 Chambers" farebbe pensare, così su due piedi, ad una fusione tra 13 Songs e 36 Chambers: in realtà, soprattutto per quello che riguarda la parte Fugazi, gran parte delle tracce sono recuperate anche da “Instrument”, documentario di celebrazione del decennale della band, una roba che difficilmente chi entra nell’orbita Fugazi al livello marginale arriva a conoscere. Quindi, chi come me si fosse aspettato di ascoltare “Give me the Cure” o “Promises”, avrebbe fatto un buco nell’acqua. Ma è una questione collaterale: Wugazi gira benissimo, dall’inizio alla fine, anche per i puristi. Quasi dispiace che Otter e Swiss Andy non abbiano deciso di pescare qualcosa da "Repeater", perchè il lavoro di mescolanza raggiunge livelli di qualità particolarmente elevati.
Problema numero due: qualunque opera di descrizione di "13 Chambers" rende infinitamente di meno rispetto all’ascolto. Provando a dare una visione d’insieme, possiamo partire dai fondamentali: “Ghetto Afterthought” e “Nowhere to Wait”. Ecco, il riff di “Waiting Room” che arriva in chiusura vi farà saltare sulla sedia e lo stesso vale per “Ghetto Superstar”, trasformata in una roba assolutamente smooth da serata estiva al pub, birra in mano, chiacchiere tra amici e il resto. Senza spostarci troppo al livello di atmosfere, “Floating Labels” tira fuori la chicca “Floating Boy”, una cosa che non sentivo da sette-otto anni e di una rara follia; “Killa Hill” è il risultato del mix “Suggestion”+”R.E.C. Room”; altre cose che meritano tantissimo sono “Shame on Blue” e “Another Chessboxin’ Argument”, e da qui in poi ci si avvicina sempre di più all’iconoclastia post hardcore, pezzi che tirano fuori il migliore appeal autodistruttivo di MacKaye facendogli indossare una veste completamente nuova.
Per il resto, rimangono a disposizione altri cinque pezzi godibilissimi e maledettamente ben fatti, sola eccezione -forse- “Slow Like That”, che sembra proprio uscito da una playlist di Virgin o MTV (ecco, l’ho detto). Mi viene in mente uno dei primi commenti che avevo letto da qualche parte all’uscita del disco. La cosa bella di Wugazi è che richiama una serie di cose già ascoltate (per quanto mi riguarda, consumate) «nel periodo tardo-adolescenziale, ma riarrangiate giusto quel tanto che basta per.». E questa cosa, assicura un godimento totale e assoluto.
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