Il miglior gruppo rock di Los Angeles degli anni '80? Presto detto: gli X.
Se ne accorse anche Ray Manzarek, che dopo averli ascoltati dal vivo, volle produrre il primo disco del gruppo: "Los Angeles". Lo troviamo alla regia anche in questo secondo capitolo, registrato a poco più di un anno di distanza dal primo. Forse la scaletta è ancora più aggressiva di "Los Angeles": mentre lì, complici gli interventi di Manzarek all'organo, vi erano un paio di pezzi un po' più lenti, qui non c'è tregua. Formazione ed intenti degli X confermati: chitarra rockabilly di Billy Zoom, batteria incalzante di Dj Bonebrake, e le voci di Exene Cervenka e John Doe che si rincorrono continuamente, come nei Jefferson Airplane dieci anni prima. La differenza è che mentre Grace Slick e soci cantavano speranzosi di una nuova stagione d'amore, qui, con fare molto spesso più annoiato che arrabbiato, Exene e John, all' epoca marito e moglie, raccontano di emarginati, viziosi, sconfitti.
Ed i refrain spesso uccidono: "We're desperate, get used to it".
Da sempre definiti band punk per eccellenza, in realtà già in questo disco gli X evidenziano tutto il loro interesse per il rock'n'roll degli anni '50 e '60, che sarà poi la matrice dei dischi successivi, nei quali gli X andranno anche alla riscoperta di certo tradizionalismo anni '70. Se, come detto, il rockabilly è l'amore principale di Billy Zoom, provate ad ascoltare la chitarra dell'iniziale "The Once Over Twice", o di "In This House That I Call Home", o di "Beyond And Back", vi è addirittura una beguine, "Adult Books", un pezzo alla Steppenwolf come "Universal Corner", ed un surfer, "Year 1".
Certo ci sono anche gli anthem punk: "We're Desperate", che era stato il loro primo 45 giri per la Dangerhouse, qui risuonato, "When Our Love Passed Out The Couch", "Back To The Base".
La canzone che più adoro è "White Girl", fondamentalmente una ballata, cantata da John Doe, con il controcanto di Exene: strofa magnifica, ponte che chiama il gancio, ritornello indimenticabile, di quelli che vi trovate a cantare la mattina da soli andando al lavoro. Insomma la perfezione.
Nel 1981 fu album dell' anno per Rolling Stone, New York Times, Los Angeles Times, mentre per The Village Voice fu secondo solo a "Sandinista". Nella classifica dei migliori 500 dischi di tutti i tempi pubblicata nel 2003, Rolling Stone lo mette al numero 334. Che posizione del cazzo. Per me è fra i cento dischi da salvare dal diluvio universale.
"Then I died a thousand times, maybe you don't, but I do"
Pubblicato originariamente dalla Slash, è stato ristampato nel 2003 dalla Rhino, con sette brani aggiunti (un paio di pezzi live ed alcune alternate takes)..
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