Se la qualità delle uscite degli Xandria fosse direttamente proporzionale alla delicata e fragile bellezza tipica delle pianiste appartenente a Lisa Middelhauve (cantante e tastierista della band) oggi ci ritroveremmo con tre capolavori tra le mani. Invece la ricerca sonora della band si è sempre soffermata, come per spavento, laddove c'era bisogno di osare, di andare oltre gli schemi già collaudati e consolidati da qualcun'altro.

Lasciando da parte la pregevole spontaneità rock dell'album d'esordio "Kill the sun" (2003) e vanificando i limitati ma tuttavia apprezzabili movimenti gothic del successore "Ravenheart" (2004), il qiuntetto tedesco è approdato nel 2005 verso territori maggiormente metallici che vorrebbero riciclare la materia orchestrale dei Nightwish di "Once" (grazie alla collaborazione con la German Film Orchestra di Berlino), aggiungendo al simpatico pacchetto preconfezionato che risponde al nome di "India" accenni di folk celtico, rendendo l'ascolto dei dodici brani in scaletta abbastanza ostile anche per chi si scervella per trovare qualche piccolo spunto degno di nota all'interno di lavori derivativi come questo. Un'ostilità legata non a chissà quale intricata costruzione musicale, ma ad una nitida ed irritante mancanza di personalità e di idee ed alla presenza di numerosi episodi dal dubbio gusto estetico.
Ecco che sin dalla traccia d'apertura, che porta lo stesso titolo dell'album, ci si accorge di come la band abbia lapidato e sepolto la più effimera parvenza d'originalità che sembrava animarla fino ai tempi di "Kill the sun". Perfino l'eleganza nello scopiazzare che li ha contraddistinti in "Ravenheart" ha deciso di andarsene in vacanza; ormai la band non è quasi più in grado di suonare nient'altro al di fuori di patetici scimmiottamenti, come vuol dimostrare la canzone in questione, che si impegna senza risultati nel dare un aspetto epico e corale alla musica degli Xandria, unendo i virtuosismi vocali di Lisa (bravissima, ma solo quando non cerca di abbracciare tonalità troppo alte) ad orchestrazioni cinematografiche e chitarre taglienti (senza tralasciare un assolo campato per aria verso la fine degli angoscianti tre minuti e venti secondi). Il rischio vomito è sempre presente.

Chiunque voglia dunque avventurarsi in questa sottospecie di concept, metafora azzardata d'un viaggio attraverso la propria esistenza (da qui il titolo, omaggio evidente al viaggio di Cristoforo Colombo) è dunque pregato di munirsi di un sacchetto, anche perché la Drakkar Records non ci ha nemmeno risparmiato la fatica di dovercelo procurare, quando c'era la possibilità di inserirlo in un bel digipack cartonato. Nel caso siate deboli di stomaco vi consiglio dunque di rinunciare all'ascolto, perché il malessere potrebbe prendere il sopravvento da un momento all'altro, come in "Now and forever", che unisce tastiere disco-pop a solari cori che ricordano una nota canzone di Enya e chitarre rubate ai Nightwish. Nessun segno di miglioramento con la successiva "In love with the darkness", efficace dimostrazione di come plasmare in una sola canzone i più banali stilemi lirici e musicali di un genere. "Fight me" cerca di unire samples elettronici a cori epici, melodie orientali e refrain melodici sporcando il tutto con i sincopati ritmi di chitarra abusati dagli Evanescence. È superfluo dire che l'eleganza della band di Amy Lee è distante anni luce da questa canzone. Quante risate quando sento la povera Lisa cercare di apparire sensuale in "Black & Silver" e cimentarsi in una parentesi che vorrebbe regalare intime e dolci emozioni dal sapore celtico in "Like a rose on the grave of love", che, con le sue zampogne, sarebbe la perfetta colonna sonora per la pubblicità della robiola Osella. Se il fondo è stato toccato da un bel po', ora si sta cominciando a raschiare e trivellare il sottosuolo, nonché la pazienza degli ascoltatori!

Con "Widescreen" cominciamo a capire meglio quale sia l'arma sulla quale i nostri abbiano deciso di puntare: i ritornelli, i quali vanno a cercare melodie facili (opponendosi così alla ruvidità delle chitarre) in ogni singolo episodio, risultando tuttavia scontati, ripetitivi e privi di attrattiva. All'ottava traccia Lisa, Marco, Philip, Nils e Gerit si trovano di fronte ad un dubbio amletico: "Quale band non abbiamo ancora plagiato? Ma certo, i Within Temptation!". Ed ecco a voi "The end of every story". Solo ora mi rendo conto di quanto sia spregevole il fatto che musicisti classici ed intere orchestre abbiano il coraggio di prestare la propria arte per simili scempi, seguendo motivazioni puramente economiche. E tuttora non riesco a capire come l'esibizione del gruppo all'ultima edizione del Wave Gothic Treffen di Lipsia, da sempre caratterizzato da un pubblico di nicchia ed abbastanza intransigente, abbia registrato ampi consensi. Tuttavia dalla traccia seguente, intitolata "Who we are", vengono momentaneamente accantonati i tentativi di plagio e, fra ammiccamenti pop e romantiche note di piano (che ricordano il precedente album), gli Xandria riescono perfino a raggiungere la sufficienza. E per descrivere "Dancer" devo addirittura ricorrere ad aggettivi del calibro di intensa, drammatica e commovente. Sebbene in questo campo l'originalità sia un concetto praticamente sconosciuto, trovare una bella ballad come questa è sempre piacevole, ed è anche vero che non tutti sono in grado di comporne di valide. Ascoltando questa bellissima canzone dai picchi sinfonici di tutto rispetto sembra proprio di stare al cospetto di un'altra band. Mescolando gli spunti di entrambe le canzoni precedenti i nostri riescono ancora a stupire grazie a "Winterhearted", anch'essa colma di melodie mai banali e dotata di un ritornello finalmente accattivante nonché di parti chitarristiche mai roboanti e di un assolo breve ma parzialmente azzeccato.

Ma ecco che a chiudere le danze troviamo l'ennesima scopiazzatura. Esemplificativo è il titolo "Return to India"; si tratta infatti di un ritorno alle linee guida dell'album, tuttavia non così ridicolo ed irritante come le tracce precedenti e dotato di un finale degno dei Rhapsody più cinematografici.
Tuttavia, rispetto alla piacevole sorpresa delle ultime tracce, l'odiosità che trasuda dalle restanti canzoni del lotto risulta schiacciante. Per questo ritengo che album come questo non siano degni di alcun merito e non facciano altro che snaturare una realtà che non ha mai goduto di grandi meriti, andando perfino a giustificare le critiche di coloro che di fronte ad un album appartenente al genere metal non vedono di buon occhio l'utilizzo di strumenti classici e di voci femminili.

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