"Prendi Ben Harper, sbiancalo in modo da farlo assomigliare a Jack Johnson, dagli una tavola da surf e mandalo a surfare con Frankenreiter, fagli suonare qualsiasi cosa emetta un suono, infilagli un digeridoo nel culo ed eccoti servito Xavier Rudd"

Più o meno con queste parole Mr. Rudd mi è stato introdotto da un amico conosciuto per le vie di Melbourne.

Musica liscia, musica che scappa via dagli altoparlanti e penetra sotto pelle. Chiamiamolo pop se vogliamo, oppure, come diceva qualcuno qualche tempo fa, diciamo che sono solo canzonette. Ma sono canzonette fatte impeccabilmente, di quelle che si stampano sul finestrino di una macchina mentre la strada ti scorre sotto le ruote, di quelle che dipingono i paesaggi in note.

White Moth è l'ultimo lavoro del polistrumentista australiano ed è forse quello che meglio gli è riuscito finora. Lo stile è lo stesso degli album precedenti. Pop rock acustico orchestrato in maniera personale e suonato egregiamente che talvolta oltrepassa il recinto per sconfinare nel reggae e nel rock. Melodie di sabbia rossa, polverose come la sua terra. L'uso della slide guitar è massiccio così come quello del digeridoo, spesso inserito negli arrangiamenti e divinamente integrato col tappeto creato da Rudd.

Non è una musica che pretende di essere qualcosa, semplicemente lo è. Del resto "l'essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere". Se gli si da un ascolto nella giusta situazione Xavier sa regalare sensazioni, sa toccare la pelle son una chitarra. Passare da ballate come "Choices" o "Land Right" a reggae di classe come "Come Let Go" e "Twist" sono indice di poliedricità, così come lo è il tuffo tra i canguri di "Message Stick".

La chitarra è la linea guida che interpola le 14 canzoni di questa cartolina dell'Australia, vista dagli specchietti di un furgone che borbottante incede sui polverosi e selvaggi sentieri della sua costa. Alla ricerca del niente, contemplando.

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