Okay, allora, prendete le mie parole con le pinze.
In giro, sul nuovo lavoro degli Xiu Xiu, non si sprecano molte belle parole. Ormai si è entrati in quel brutto momento in cui un artista o un gruppo viene giudicato negativamente per ogni cosa che proviene dalle loro mani. Un evento che, incredibilmente, avviene per tutti, senza eccezioni: il vento tira da altre parti e ormai non sei più cool, non sei più sulla cresta dell'onda e se cambi non sei più come prima, mentre se ti mantieni fedele al tuo stile diventi ripetitivo e noioso.
Quindi, ripeto: leggete la mia recensione, ma bilanciatene un po' l'entusiasmo. Perché, come saprete, gli Xiu Xiu sono il mio gruppo preferito. E, come tale, può apparire che il mio responso riguardo all'album (che ho ascoltato e riascoltato molte volte) possa sembrare (o essere) di parte. Ma, d'altronde, tutti noi reputiamo i nostri miti come amici e finiamo per farci piacere anche i loro lavori meno riusciti.
Bene. Allora fatemi dire che a me "Angel Guts: Red Classroom" nonostante il malcontento generale, mi ha rapito dal primissimo ascolto. Molto più di quanto era successo con il precedente "Always", che ci ha messo più ascolti a farsi comprendere a fondo e che, comunque amo. Quello era un disco da macchina, veramente easy nel suo intercedere di ritornelli sbilenchi, qua e là inframmezzato da momenti di delirio giusto per mandarti fuori strada (i capolavori "I Luv Abortion" e "Black Drum Machine") o da inattese ballatone strappalacrime (la bellissima "The Oldness").
Invece, "Angel Guts" già si presentava bene da principio: dopo la parentesi jazz di "Nina" eccolo qua, un disco da ritorno alle origini (così diceva Stewart) che porta il titolo di un pinku eiga di Takashi Ishii, con un singolo trainante ("Stupid In The Dark") da discoteca del massacro.
Non un ritorno alle origini vero e proprio, quanto una nuova evoluzione. Un nuovo percorso da intraprendere che accantona il pop, per tramutarsi in pura, animalesca espressione.
Finalmente il piccolo Jamie è tornato a metterci in scena un irreversibile collasso nervoso, che non è più quella depressione sussurrata da un malato di lebbra che era, sostanzialmente, l'immortale (mio disco preferito in assoluto) "A Promise", quanto un concentrato di nevrosi, rabbia, urla e abrasioni procurate da synth analogici stuprati e gettati nell'abisso.
Sorvolando sulle inconsistenti intro ("Angel Guts") e outro ("Red Classroom"), tutti i dodici pezzi dell'album si mantengono su livelli altissimi. Brani che tornano a gettarti tra le maglie della perversione incontrollata e della depressione senza sfogo dei primi lavori del cantautore californiano e della sua fidata nuova compare Angela Seo (con lui da "Dear God, I Hate Myself"). Dodici psicodrammi di violenza e oscurità, dove la sola "Stupid In The Dark" ha un che di orecchiabile e easy-listening, quasi un anthem per derelitti in attesa di una rivoluzione che non c'è.
La tregua è dettata da due degli apici del disco: la prima è la meravigliosa canzone d'amore "New Life Immigration" con quel sussurrato tremante "We Don't Need to live to love"- Dio mio, non vi sto a raccontare i lacrimoni che mi vengono ad ascoltarla: mi sento una di quelle donne che da qualche parte del mondo vengono pagate per piangere ai funerali di sconosciuti-. La seconda è "Botanica De Los Angeles", altra straniante ballata con quell'incedere dolente tra tenerezza e disperazione: "But that pistol is raised in your lips. Fill it with kisses". Dite quel che volete: io mi sto sciogliendo nel vuoto.
E sto bene. E sto male.
E vorrei piangere, gridare, stracciare questo orizzonte che mi si scaglia davanti.
Che io non sopporto più la parola "Primavera".
Mi rinchiudo nel tuo inverno.
E scusate se divago, ma voi sapete che le mie recensioni sono sempre emotivamente instabili, dettate da un linguaggio che nemmeno io so spiegare. Così mi perdo nel ratiocinio distrutto dagli inferi di una "A Knife In The Sun" dove il ringhio di Jamie coincide con il furore di un synth dilaniato dall'apocalisse. Mi disintegro di fronte a quel massacro dell'innocenza che è la straordinaria "Cynthia's Unisex": da qualche parte c'è lo spettro di Alan Vega che sguazza in quei "NONONONONONONONONONO!" a valcare gli irrequieti oceani tra le tempie di un piazzo.
Il viaggio è non-lineare, ma estremamente omogeneo: così, da una parte abbiamo i graffi punk di "Lawrence Liquors" e dall'altra il minimal synth scalpitante di "Black Dick", un orgasmo che eccheggia su tiepidi spasmi di carne.
Sto perdendo il controllo.
Eccomi nell'iperuranio guardarvi dall'altro.
Ho in testa il pop da vene tagliate "Adult Friends", le crisi cardiache di "The Silver Platter", la febbrile "Archie Fades" e il vaso di Pandora scoperto dal titolo "Bitter Melon".
Eccola qua, finalmente, ritornare quella psicologia in frantumi, rivestita da calci di buio, da ritmiche schizofreniche e pesanti, destrutturate, senza controllo.
Io, qui, con questi brani incastonati nei timpani, picchio i pugni per terra.
E se fossi stato veramente sincero, avrei scritto questa recensione a flusso di coscienza, saltando il primo paragrafo informativo e piena di errori ortografici, sbalzai temporali, priva di punteggiatura. Se fosse un film, la farei con continui sguardi in macchina e scavalcamenti di campo.
Tra i dischi dell'anno subito.
HELLO SADNESS.
HELLO MENTAL BREAKDOWN.
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