Morendo, udivo ronzare una mosca

Il silenzio nella stanza

Assomigliava al silenzio dell’aria

Fra successive ondate di tempesta. (Emily Dickinson)




"Homemade music", datata 1982 ma pregressa, fatta da tre artiste newyorkesi, più legate alle arti visive che alla musica. Musica domestica esile e stralunata, surrealista ed auratica. Roba da sconfessare le Raincoats di “Odyshape” e preconizzare il post-punk funk delle ESG di “Come Away With ESG”.

Non ricordo con cosa Janis Joplin dicesse di cantare, ma dentro “Beat It Down” c’è l’essenza del rock al femminile. Una sensibilità altra. E altera. Una via che intellettualizza ogni lato sensuale, astraendolo, in una erotizzazione pienamente ideale: ogni aspetto languido è dismesso, mentre la nudità del suono lampeggia eburnea e attraversa, scompigliandolo, il buio che ha inghiottito ogni confusione esterna e fracasso.

Un piano giocattolo, un ukulele, una tastierina Casio, un basso, un innocuo kit di percussioni di Mickey Mouse, una batteria, tre voci. Nessuna chitarra fallocrate!

New wave, no wave, avant-funk, musica dadaista e lineare. Ritmi ridotti all’osso, tribalismi e nenie. Arrangiamenti minimali, ma incisivi nella loro gelida geometricità. Strutture a pioggia guidate da cori ipnotici. Melodie out, anti-pop, tanto astratte e simboliche quanto naif. L’approccio è altrettanto grossolano che finemente intellettuale; libero e ingenuo al contempo. L’originalità è qui un processo artistico-creativo totale, non mera provocazione. È spinta molto oltre al generico minimalismo, di cui è pur figlia, per le potenzialità evocative, per suggestione e poetica.

Quasi concepiscono una possibile controparte di “Trout Mask Replica”.

Amano i versi: “Barbara’s Song” si rifà a Brecht, “The Fly” adatta Emily Dickinson.
Amano gli esotismi anche se resi abulici: “What Do You Take For Me?” implementa scale arabeggianti, “Lulu” spiega un fondale di battiti panafricani.
Esecrano la violenza sessuale: “The Way Boys Are”.
Propugnano un’estetica sui generis, una “small music” innocente, meccanica e atemporale con “Obvious”, corale sognante e trasandato, con “Beat It Down”, squillante propellente cartoonistico, “Love’s Desaise” e “The Shah Song”, squittii libertari ai lati di una soffitta incantata.

I paradigmi di riferimento possono essere: Shaggs, Teenage Jesus & the Jerks, Raincoats, ESG e Theoretical Girls (una delle tre era fidanzata con Glenn Branca). Ma qui sembra quasi di stare a guardare un’avanguardia. Un unicum. Un hapax. Un tropo, traslando fotografie o traducendo azioni in musica: mosche che ronzano, indigeni che danzano, bottiglie che suonano, respiri che si mozzano, sguardi velati, corpi ritratti, giocattoli contorti; una città compressa in una stanza museale.
Un suono femmineo sfuggito dalle mani di tre artiste provette (una fotografa, una film-maker, un’artista visiva), prestate alla musica, per un album estraneo al mondo circostante, tra pensieri immediati e suoni sfuggevoli. 11 canzoni inquiete, libere, alchemiche, quintessenziali. Per un misconosciuto archetipo. Un misconosciuto capolavoro.

Per sempre grazie Barbara Ess, Gail Vachon e Virginia Piersol. E all’unica cosa che v’importava: l’arte.



Sognamo –ed è buona cosa-
Ci farebbe male –fossimo svegli-…
È più prudente - sognare. (Emily Dickinson)

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