Gli Yakuza indicano la via della morte al metal tutto. Con un po' di coraggio, certo - ma nemmeno troppo - e con un marcato dosaggio della violenza. Lo accompagnano sottobraccio alla porta girevole, come se fosse il nonno preferito, quello delle mance, del cioccolato e delle chiacchierate. Poi, sull'uscita, lo sbattono fuori a randellate nel posteriore. Un pugno e una carezza. Poi un pugno, ancora un pugno, un terzo pugno. Una carezza. E una nuova sventagliata di pugni.

Ci troviamo, mutatis mutandis, di fronte ad un oggetto che mette in crisi qualsiasi immaginario voi abbiate attualmente in mente. Una situazione in cui, qualunquismo alla mano e rapidità d'occhio, potremo tranquillamente redigere un'enciclopedia della demolizione del metallaro medio, praticamente il tipo di fruitore che più si troverebbe in imbarazzo e/o difficoltà (propendo maggiormente per la connettiva) di fronte a questo suono. Biasimando qualsiasi tipo di iniziativa di tal fatta, che ormai spunta anche dai siti di shitgaze, mi si consenta però un'osservazione a margine che vorrebbe, in qualche modo, riassumere il succo della recensione. Perchè, in tempo di crisi, continuare ad affidarsi alle mani di chi, il patatrac, lo ha generato? Perchè citare, ascoltare, riesumare dischi vecchi di anni ed ancora più obsoleti per idee, inventiva, scorrevolezza, mummie anacronistiche senza collegamento con il dopo? Perchè ritenere ancora affidabili personaggi che comprano i riff all'ipermercato e, senza cura artigianale, li fanno scorrere l'uno addosso all'altro in un cut'n'paste agghiacciante per risultato ed ambizione? Perchè lamentarsi del dissesto, se la soluzione è comodamente sotto mano? Ripartire dal piccolo manifatturiero, come in economia, è cosa buona e giusta: ripartire, insomma, da qui.

Tanto ridotto, a dire il vero, non lo doveva proprio essere, nel 2002, il budget economico degli Yakuza. Rivedendo, ora, con il senno del 2009, tutta la loro carriera discografica, sono convinto che, oltre ad una inevitabile crescita stilistica e personale, il gruppo capitanato da Bruce Lamont avesse in sè, da subito, una spietata furbizia manageriale. È "Amount To Nothing", esordio autoprodotto di un anno prima, ad attirare l'attenzione della Century Media, label specializzata nel genere: convinta di avere trovato una gallina dalle uova d'oro, grazie al metalcore secco, violento, embrionale, ingenuo ed un po' raffazzonato che chiude in una morsa gran parte dell'album, l'etichetta offre contratto, studi e denaro - dettaglio non indifferente - per esortare il quartetto a proseguire su quella strada. La risposta ha nome "Way Of The Dead", l'azzardo più grande e rischioso da parte della band, l'errore commerciale più macroscopico che i manager discografici potessero fare: risultato, Yakuza da una parte, Century dall'altra, ogni vincolo sciolto (d'ora in poi incideranno solo per la minore, interessante Prosthetic-Red).

Seppur deleterio ai fini di un sicuro mantenimento pluriennale, quella lanciata al potere è una sfida con pochi eguali, uno schiaffo a senso unico, un tuffo negli abissi della sperimentazione, sicuri di tornarne, vivi, più completi che mai. Non sarò blasfemo nel dire che questo lavoro è un punto di rottura determinante per la sopravvivenza e il senso stesso del metal, opera che tutti i detrattori dovrebbero provare, almeno una volta - anche se, a breve, diventeranno due, tre, quattro, ad libitum -, vessillo esemplare della forza dirompente della contaminazione e dei suoi effetti benefici. Sgomberiamo il campo dagli equivoci, giusto per crearne uno ancora più grande: gli Yakuza, da qui in poi, suoneranno jazz-metal. Il già citato Lamont, oltre a ricoprire efficacemente il doppio ruolo di clean e scream vocals, alternanza profondamente segnata da anni di hardcore, è infatti un pregevole sassofonista d'impostazione marcatamente fusion, aspetto che amplia a dismisura gli orizzonti degli otto brani qui presenti. Non pensate, però, a pezzi del tipo riff-sax-riff-assolo-urlo-sax, roba da gerontofilia acuta: la competenza dei musicisti tocca vette per cui le stesse chitarre, distruttive ed abrasive come colate laviche, si trasformano sovente in tavolozze da cui far sgorgare sfumature e dettagli ogni volta nuovi ed entusiasmanti.

Il primo particolare che colpisce, una volta inserite le cuffie, è l'assoluta pulizia del suono, accuratezza quasi onnipresente nelle produzioni del filone, che qui non esalta tuttavia un singolo ma il complesso, non l'individualità ma l'accezione collettiva, e permette di sottolineare con grande efficacia le genialità dei costrutti. Idee, manco a discuterne, ne piovono quantità torrenziali in ogni, singola canzone, una sconfinata mandria che permetterebbe a chiunque di campare per qualche lustro almeno. La maggiore influenza del gruppo, come la copertina d'altronde fa notare - già "Amount To Nothing" era sufficientemente esplicativo al riguardo - proviene dalle suggestioni dell'Estremo Oriente, le sue sonorità oblique e pericolanti, traslate in un contesto occidentale e travasate a piene mani nello spettro dei testi, spesso introspettivi, filosofici o metaforici. Eppure, sarà anche un peccato, non c'è nulla da fare: è la musica a catalizzare, ipnotizzare, magnetizzare, sia nello start tribale e selvaggio di "Vergasso" - iniziazione per tutti? - che nello strumentale "Signal 2.42" - sento odore di Toby Driver... - o nell'elettricità scartavetrata a ritmo sciamanico della divina (nirvanica?) "Chicago Typewriter", indefinibile fusion-core ondivago pieno di cambi di tempo, come in un perpetuo samsara (provate a dire come si chiamerà il seguito di quest'opera?).

Ma in "Way Of The Dead", grazie a Buddha, ce n'è proprio per tutti. L'appetito dei più grezzi e materialistici verrà ampiamente soddisfatto (forse ne avanzerà anche) con le terrificanti bordate death-grind di "T.M.S.", la follia distonica che corre, sospinta da folate di blast dispari, sul filo dei tre-minuti-e-mezzo. Quelli già più raffinati non pregheranno oltre per fare propri i quasi quattro di "Miami Device", apertura e chiusura come il Sun Ra più elettrico - e stordente - a confluire in una tempestata thrash, dove i riff sono tuoni che piegano in due la forma/canzone (non c'è old school che tenga). Riprendiamo in mano ancora "Vergasso" per esplorarne la sezione centrale, doom in controtempo acidissimo dalle fantastiche schizofrenie vocali e ricco di riverberi psichedelici stranianti, quasi ci fosse bisogno - forse sì - di musicare la catarsi. Non sentirete cose del genere da nessun altra parte: diventa persino difficile provare a ricostruire una mappa delle ispirazioni, tale e tanta è la coesione. Ci sono, forse, echi di Naked City in coda ad "Obscurity", schiacciasassi assolutamente free e schizoide, con un sax che stride, geme, strepita e si contorce in stantuffi diabolici, per la gioia delle nostre orecchie. "Yama" mette in evidenza le capacità tecniche ed inventive dell'ottimo chitarrista Matt McClelland, prima del lunghissimo esodo finale, l'interamente strumentale "01000011110011": oltre quarantatrè minuti (!) di jazz rock vagamente duro, vagamente swingato, vagamente astrale e solipsistico, che deforma i Black Sabbath a tal punto da renderli Weather Report a colloquio con Miles Davis.

Dopo questa perla arriveranno due totali, enormi, clamorose conferme come "Samsara" (...appunto) del 2006 e "Transmutations", un anno appena successivo: niente di più che ghiotte occasioni per incrementare l'incredibile bellezza ed autonomia di questo ibrido con spennellate acustiche, digressioni rumoristiche e world music, tutto saldamente tenuto in mano come se fosse un solo respiro. Voi chiamatela pure come volete, a me pare solo musica del futuro.

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