Vi è già una magnifica recensione di questo magnifico album nel sito, pertanto questa mia vuole essere una ulteriore sottolineatura dell'opera verso quegli appassionati del gruppo rimasti ancora scettici al suo ascolto, nonchè verso altri che in fondo la pensano come me ma non lo hanno ancora focalizzato del tutto: ritengo che questo sia, e  di gran lunga, il miglior album degli Yes dai tempi di "Going For The One".

Non è poco. . . in mezzo a questi due lavori ci stanno venticinque anni, nei quali gli Yes hanno combinato di tutto e di più: musicisti in entrata e in uscita, litigi e riappacificazioni, ammucchiate sul palco, una buona dose di dischi ufficiali e una devastazione di raccolte, live concerts, unplugged, solo albums. . . tutto o quasi abbastanza interessante, abbastanza buono, abbastanza vario da provocare sensazioni di piacevole abitudine, di affettuoso riincontro, di rinnovata stima ma. . . niente a livello del glorioso passato.

Stavolta invece ci siamo. . . cosa è successo? Cambiata la musica? No, è ancora quella (nel senso: quella incisiva di quando non c'è il banalizzatore Trevor Rabin di mezzo). . . l'orchestra al posto delle tastiere di mago Wakeman? Moh, forse il vantaggio è stato "gestionale", nel senso di un galletto in meno nel pollaio (decisioni più facili e veloci) e poi l'orchestra lavora benissimo ma anche Wakeman non scherza quando è in buona. . . Jon Anderson canta meglio? Ma come si fa a cantare meglio di quanto, da sempre, canta quest'uomo?!? Che diavolo di voce eternamente piena, forte, irraggiungibilmente alta, tanto bella da poter essere esibita anche priva di riverberi, nuda (accade un paio di volte in quest'album)!

Anche Alan White sembra sul solito standard, pulito ed efficace. . . e allora sono ad esempio i due signori che stanno a fronte palco insieme ad Anderson a dare di più stavolta? Siiiii! L'ormai avvizzito Mastro Steve Howe è qui in piena forma nel suo ruolo di cesellatore sublime, entra ed esce dal proscenio in modo squisito, non preme sull'accelleratore se non per un paio di cavalcate di lap steel, indugiando abilmente a cambiare suoni e strumenti, portare riff arpeggi e controcanti e stando al largo, così come l'orchestra, dal fulcro del suono sì da dare ad esso respiro, dinamica, aspettativa, gusto.

Ed eccolo il fulcro del suono, il centro motore di tutto! Il Rickembacker bianco di Chris Squire torna clamorosamente a far tremare le viscere dell'animale Yes. Maestosamente alto nel missaggio come è doveroso che sia perché la musica di questo gruppo funzioni, sciorina tutta la sua immensa forza melodica e strutturale, nonché l'incisivissimo repertorio della casa di sfumature (vibrati, salti d'ottava, armonici. . . ). Inesauribile e generoso, nutre senza sosta la "pancia" dei pezzi più ambiziosi e riusciti dando loro spinta, imprevedibilità, direzione! Dopo diversi ascolti per assimilare l'opera nella sua compiutezza, ci si perde veramente a concentrarsi sul suo strumento, un vero vulcano di espressività a quattro corde, ed è parimenti emozionante sentire in evidenza anche la voce di questo bassista, tornata qui sovente in primo piano ad affiancare ed intrecciarsi con quella di Anderson, perché l'impasto di questi due canti è una delle case del prog e se Anderson ne è l'inimitabile costante, il timbro altrettanto peculiare del bassista è il perfetto complemento per gli Yes.

Il disco contiene a mio avviso due capolavori, due composizioni abbondanti degne di essere da qui in poi alternate ai vecchi classici del gruppo in tutti i concerti a venire. In posizione 4 sta "Give Love Each Day", con un'intro "cinematografica" di sola orchestra che poi rimane a legare gli stacchi e i ceselli degli strumenti sotto le strofe. Quando arriva il corale di ritornello. . . esso è meraviglioso!

Nell'altro vertice del disco, la suite messa in penultima posizione "In The Presence Of", Anderson inizia il canto sopra un pianoforte "pastorale" suonato da Alan White con rivolti bellissimi. Ci pensa poi Howe  a dare ulteriore interesse al pezzo con uno dei suoi assoli bicordi da manuale; Anderson torna a cantare il secondo movimento e lo fa in una maniera toccante, con armonizzazioni ricercatissime che sfociano in un infuocato lavoro di lap steel, su stacchi strumentali e vocali indovinati. Siamo ai livelli di "Awaken" di sicuro. . . anche nell'intermezzo atmosferico, con Howe sul pedale del volume e poi a manetta fino ai superacuti e le forti mani di Squire a dare espressione ad ogni nota del suo basso. . . si finisce col cuore in mano!

Come dicono alla Ferrari, sono i particolari che fanno grandi le prestazioni. . . Ad esempio la breve ballata di chiusura "Time To Time", confortevolmente asciutta e solare, fosse stata proposta al centro della scaletta avrebbe fatto l'effetto di un riempitivo. . . messa in coda al disco ne costituisce una corroborante sigla, dopo l'avvilupparsi trionfale e inquietante di cori e lap steel nel finale del pezzo precedente. La si ascolta sollevati e ci si rilassa, scaricandosi degli intensi momenti musicali appena avuti. . . per dire che una forza di questo disco, fra le tante e non secondaria, è l'indovinata sequenza dei pezzi: sono proprio messi l'uno ad ispirare il successivo, e a farsi valorizzare dal precedente.

Giudicate Voi, nel mio cuore questo "Magnification" si è incastonato fra le damigelle d'onore della sacra triade "Yes Album/Fragile/Close To The Edge", a far compagnia a "Relayer" e "Going. . . ". Non è il solito album "di sopravvivenza" di questi veterani della buona musica, è uno dei loro vertici.            

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