È incredibile! Gli Yes continuano a perdere pezzi per strada ma la qualità dei loro lavori stranamente si rialza! Due anni fa usciva il primissimo lavoro senza Chris Squire ed era un sorprendente lavoro di genuino prog come non facevano da una vita, poi hanno perso anche Alan White (il membro di più lunga permanenza nella band)… e come per magia l’asticella si alza ancora, pur con qualche pecca. Sono gli inossidabili per eccellenza del rock progressivo e nemmeno una cosa così forte come la morte li ferma (band come Led Zeppelin e Nirvana si sono arrese dopo un solo decesso). Beh a dire il vero ad andare avanti per 55 anni è praticamente solo il nome, nessun membro di quelli in forza in quel lontano 1968 è ancora in formazione (di solito nelle band c’è sempre almeno un membro chiave che porta avanti il gruppo dall’inizio alla fine), ma anche lo spirito che si cela dietro, la mentalità, davvero non mi sorprenderei se il marchio Yes andasse avanti per sempre con persone ogni volta nuove, esattamente come una squadra di calcio, sarebbe un fatto inedito per la musica e magari potrebbe proprio cambiare definitivamente il concetto di band. In ogni caso in questo momento è fondamentalmente Steve Howe a credere ancora negli Yes e a caricarseli sulle spalle alla veneranda età di 76 anni, è lui l’unico superstite degli anni d’oro della band, è lui il saggio che sa come farlo al meglio, mantenendoli saldi alle loro radici; e non presenta grossi segni di stanchezza, magari evita di calarsi in veri e propri vortici strumentali ma pennella benissimo le trame disegnando una perfetta simbiosi fra complessità e melodia.
Ciò che rende grandioso “Mirror to the Sky” è sostanzialmente il fatto che qui si torna a dare grande spazio alle composizioni lunghe ed articolate: due brani raggiungono i 9 minuti, una si avvicina ai 14, una supera gli 8, un insieme di minutaggi che rimanda agli anni ’70, come se una band di vecchietti volesse atteggiarsi a band giovane e fresca. Le due tracce di nove minuti “All Connected” e “Luminosity” riescono a mischiare in maniera intelligente arrangiamenti sofisticati e melodie soffici ma brillanti, mettendo in risalto soprattutto questo secondo aspetto, Howe costruisce ottimi intrecci di riff e scale ma sembra quasi volersi nascondere, si sentono bene ma non risultano mai pesanti perché tutto è in funzione della melodia, che suona leggera ed ariosa. La lunga title-track è una vera sorpresa perché non ero sicuro che gli Yes sapessero ancora comporre un brano così alla vecchia maniera; questo è proprio un retaggio dei tempi migliori, quasi 14 minuti fra fughe strumentali, saliscendi ritmici, parti orecchiabili e meno impegnative e momenti lenti e riflessivi, l’avessimo trovata in qualcuno degli album più importanti non ci sarebbe stato davvero nulla da dire. Stesso discorso applicabile a “Unknown Place”, dove Geoff Downes (non molto appariscente nel resto dell’album) tira fuori passaggi di organo vecchia maniera che avremmo tranquillamente potuto attribuire a Rick Wakeman, mentre nella seconda parte troviamo parti acustiche romantiche e classicheggianti che sembravano relegate ormai al dimenticatoio, così come non ci si aspettava quell’organo da chiesa. L’errore peccaminoso è stato fondamentalmente piazzare questo gioiello di vecchio splendore in quello chiamato “bonus disc”; non so cosa si intenda esattamente con questa dicitura ma con certe definizioni bisogna andarci piano, quando parli di “bonus disc” in genere intendi qualcosa di secondario, qualcosa che non consideri davvero parte dell’album, con il rischio che anche i fan arrivino a pensarlo, anche se siamo lontani dal vero pasticcio che fecero gli IQ nel 2014; in tutta onestà, declassare “Unknown Place” a brano secondario è un crimine!
Composizioni quindi di alto livello quando si viaggia sulla lunga durata… un po’ meno quando i minuti si accorciano, sembra esserci un certo divario fra brani di lunga e breve durata. A dire il vero neanche tanto per quanto riguarda il brano d’apertura e chiusura del disco principale: “Circles of Time” è un bel brano lento ed acustico assolutamente degno dei veri Yes, non sarà pretenzioso come gli altri ma adempie bene alla sua funzione; anche l’iniziale “Cut from the Stars” è un brano più che buono, che ha nel ritmo incalzante e nella sua linea di basso travolgente il suo punto di forza, vorrebbe cercare di imitare “The Ice Bridge” dal precedente album, esserne una riproduzione in scala, una miniatura perfetta, probabilmente lo è ma l’opener del precedente album era superiore e più coinvolgente.
Le note leggermente dolenti sono comunque altre, “Living Out Their Dream” è un brano decisamente senza capo né coda, il punto più basso dell’album che si trova invece nella tracklist principale, vorrebbe essere un brano pop appena un po’ sofisticato ma non ha né un groove né una melodia coinvolgente e i suoi passaggi strumentali sembrano buttati a caso per alzarne il livello, fallendo. Anche “One Second Is Enough” è un pop fiacco e trascurabile ma stavolta sembra ve ne sia la consapevolezza, tant’è che si trova nel bonus disc. Il dischetto aggiuntivo ha anche “Magic Potion” che però qualche idea la ha, è un simil-funk imbruttito e non troppo spinto, è “carina” ma dagli Yes non ci si aspettano cose “carine”, rimane una bonus e non oltre.
Il problema è fondamentalmente questo, gli Yes farebbero meglio ad abbandonare ogni velleità pop, ciò che ha prodotto lavori non ispiratissimi negli anni ’90 è stato proprio questo ostinarsi a mostrare questo tipo di attitudine, sono riusciti a fare un ottimo pop negli anni ’80, poi basta.
Questi piccoli appunti non alterano comunque la mia percezione sull’album. Vi ricordate quando esagerai definendo “The Quest” il loro migliore da quarant’anni? Beh, al netto di qualche episodio trascurabile direi che è “Mirror to the Sky” il migliore post-Drama, o perlomeno se la gioca con il precedente o con “Magnification”. Diciamo che “The Quest” aveva meno passi falsi e gli episodi pop erano più riusciti, qui però si è alzata l’asticella in occasione delle composizioni più lunghe. In maniera un po’ azzardata lo paragonerei a “Going for the One”, presenta lo stesso concetto di fondo, essere complesso, essere prog ma in maniera non esagerata. In ogni caso ho recuperato piena fiducia negli Yes, io che pensavo andassero sciolti dopo “Big Generator” ora noto che la loro presenza nel panorama prog ha ancora un senso.
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