Bill Bruford, l'eccezionale e poliedrico batterista degli Yes prima e dei King Crimson dopo, annunciò il suo ritiro dagli Yes nel 1972, subito dopo la pubblicazione dell'epocale Close to the Edge. Secondo lui, nessuna collaborazione reiterata con gli altri 4 musicisti avrebbe portato a migliori vette artistiche, e dunque abbandonò accettando al contempo l'offerta di Mr. Robert Fripp, un biglietto di sola entrata nella corte del Re Cremisi.
Questo evento è emblematico della situazione che gli Yes superstiti, Jon Anderson, Steve Howe, Chris Squire e un titubante Rick Wakeman, che si trovarono a dover affrontare la costruzione di un nuovo album tenendo bene a mente il vaticinio di Bruford. Fu arruolato Alan White, energico e tecnicamente eccellente batterista emergente, all'epoca in tour con John Cocker. Il suo stile, come già detto energico e in un certo senso più ruvido di quello del predecessore, è uno degli elementi di spicco di questi Yes, che abbandonarono il drumming jazzistico\fusion di Bruford in favore di uno più rockeggiante, che molto spesso si fa sentire nel disco recensito.
"Tales From Topographic Oceans" non è un'opera controversa, non è un album folle nè un album figlio dell'esibizionismo, è un album che era previsto già nel "codice genetico" di Howe e compagni, rilasciato peraltro nel 1973, anno molto speciale per la maggior parte delle band di prog rock inglese, che quasi sotto un improvviso richiamo interiore sfornarono caterve di album indicibilmente lunghi e complessi, sfidando persino gli stessi canoni free-form del genere.
Passando al disco vero e proprio: si tratta di un doppio LP, composto da 4 lunghe suite, una per ogni lato. Ogni suite tratta singolarmente ognuna delle quattro classi di scritture che costituiscono i Shastra Hindu. Jon Anderson venne a conoscenza della cultura Hindu leggendo l'Autobiografia di uno Yogy, famosissimo libro ascetico. Spesso criticato, raramente amato alla follia, sappiate fin da ora che questa recensione è essenzialmente positiva, quindi alla larga detrattori senza scrupoli.
Le danze si aprono con la affascinante "The Revealing Science of God", brano dominato in larga parte dalla chitarra e dal basso, con un'eccezionale intelaiatura sonora da parte di Wakeman. White sfodera da subito il suo stile, e accompagna eccezionalmente sia le parti più concitate che quelle più rilassate, senza risultare troppo invasivo. Già questo primo brano, in ogni caso, confuta tutte le teorie riferite alla ipotetica totale mancanza di idee della band in quel periodo, accusata di allungare i brani con parti riempitive e futili. La melodia, come dicevo, è in costante cambiamento, e in un punto è abbellita da "Voce D'angelo" (così Fripp chiamava Anderson) e nell'altro invece arricchita da una trama di basso ribollente, senza mai risultare troppo pesante, e sopratutto risultando estremamente varia, con stacchi e ripetizioni accorpati daaltri spunti melodici. Non il brano più bello, ma decisamente emblematico dello stile del disco.
Il secondo brano "The Remembering: High the Memory" è, a mio parere, la suite più piacevole e più accessibile dell'intero panorama prog. In larga parte acustica, arricchita all'inizio da tastiere a profusione che ricalcano leggeremente i temi del primo brano, risulta estremamente orecchiabile e comunque estremamente ricca e molto ben costruita, con un finale semplicemente mozzafiato, emozionante come pochi.
Il disco continua con una perla di rarissima bellezza, la selvatica e indomabile "The Ancient: Giants Under The Sun". Come definire questo pezzo? 12 minuti di stacchi jazzistici orientaleggianti e parti di raro virtuosismo, sia percussionistico che chitarristico. Si inizia da un'introduzione con una specie di Synth-Guitar animalesca sostenuta da ritmiche di stampo africano, con una melodia scurissima e lamentosa, lievemente inquietante. Segue una parte dove il mellotron assurge a ruolo di orchestra a sè stante, con circa 1 minuto di calma e pace, seguito da un chitarristico attacco di epilessia in tempi dispari, che aggiunge un tocco stranissimo alla ripresa del dolce tema orchestrale di poco prima. Inzia così la terza parte, orientaleggiante e caratterizzata dalle inquietantissime fugaci apparizioni canore di Anderson, che ha giusto il tempo di dire la parola "sole" in varie lingue. Verso i 9 minuti parte poi un pazzesco assolo in crescendo, che si va componendo di nuove note partendo dalla base originale di stampo vagamente asiatico. Poi, quando tutti sembravano divertirsi alla grandissima, arriva una parte che mi lascia abbastanza interdetto, il classico intermezzo acustico Anderson\Howe, totalmente slegato dal resto. Che l'abbiano aggiunto per accenturare la dimensione leggermente disturbante del brano? Difatti poi si interrompe in modo totalmente brusco sul finale, con delle sferzate chitarristiche che riprendono il tema della parte orchestrale e finiscono così un brano epocale, davvero una delle più belle suite di tutto il prog.
Il quarto brano è un'altra perla dimenticata, "Ritual: Nous Somme Du Soleil" è una romantica ballata dal testo romantico riempita di idee e sopratutto contenente una delle melodie in assoluto più belle che gli Yes abbiano mai scritt, quella relativa al ritornello. A spezzare il ritmo cullante arriva però una furiosa cavalcata di melllotron e percussioni africane, a rappresentare l'ipotetica battaglia del bene contro il male rappresentata nel testo, che ricalca appunto lo schema "Preparazione-scontro-svolgimento-finale" che gli Yes spesso usarono nelle loro suite. E in questo caso il finale è un delizioso salto nel buio vocale, con Anderson che con voce rotta dall'emozione declama "Nous Somme Du Soleil, hold me my love, hold me upon lasting hours"
Nous Somme Du Soleil.
Un disco epocale, secondo la mia modestissima opinione di quattordicenne, che contiene davvero pochi "disappointing moments" e verso il quale considero davvero ridicolo tutto questo accanimento...
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