Sogno d’una notte di mezza estate… La musica mi culla placidamente. Le casse dello stereo emettono il placido rumore del secondo cd degli Yes: 'Tempo e una Parola'.
Dalla finestra si vede un cielo nuvoloso e delle macchine passare. Intanto intorno a me le mura si trasfigurano e il sonno inizia a prendere il sopravvento… . Nel sogno mi trovo in un quadro surreale. Una landa brulla e desolata. Spuntano dal terreno dei germogli. Velocemente essi diventano prima piccoli alberi, poi enormi querce secolari. La creazione.
Colonna sonora di questo avvenimento è “No Opportunity Necessary, No Experience Needed”, cover di Richie Havens, riadattata in stile Yes. Questo è un album di transizione tra il beat del primo album e il progressive di 'The Yes Album'. Potrei definirlo Beat sinfonico. In queste tracce si fa sentire l’orchestra sinfonica, utilizzata da loro per la prima volta come sottolineatura dei momenti più drammatici. Rimango esterrefatto. Inizio ad avere un attacco di claustrofobia in mezzo a quegli alberi così grandi. Oltretutto degli occhi gli sono spuntati sulla corteccia e mi fissano. Mi sento soffocare. Scappo via. Sempre più velocemente. Veloce. Veloce.
Mi guardo intorno per vedere se c’è qualche posto in cui poter tornare a respirare normalmente e intanto strappo via o evito tutto ciò che trovo a intralciare il mio cammino. Ma, più mi addentro, più la foresta diventa fitta e buia. “Then” scorre, aumentando di tensione man mano che vado avanti. Il ritornello mi sa di falsa spensieratezza, rende tutto più desolante. Come se volesse far capire che la mia corsa non porterà a niente. Seguono ad esso delle digressioni strumentali nevrotiche. Ma tutto si ferma improvvisamente. E pure io, nel sogno, mi fermo e mi distendo per terra. L’organo hammond di Kaye disegna un accompagnamento alla voce di Anderson (sempre così limpida e espressiva), questa volta placida e sconsolata. La traccia finisce.
Io sono disteso e non trovo la forza di alzarmi. Si sta da Dio: niente più preoccupazioni, niente frenesia, solo io e gli alberi. Una nebbiolina viola inizia a ricoprirmi sulle prime note di “Everydays”, cover di Sthepen Stills. Tranquillità. Ecco cosa trasmette all’ inizio la canzone, complici anche i violini dell’orchestra che rendono il paesaggio ancor più idilliaco. Ma ecco che tutto scema verso un'altra digressione strumentale, ancora più aggressiva della precedente. In quel momento mi stacco con violenza dalla nebbia che sembra mi voglia costringere per sempre lì per terra, per poi potermi uccidere. Adesso sono in piedi e guardo con disprezzo il mio ingannevole vecchio giaciglio. La musica torna a essere quella dell’inizio.
Vogliono che ritorni lì, ma mi giro e torno a camminare. Non so dove andare. Non ho un fine. Non c’ è nessuno a tenermi compagnia. Sono solo. “Sweet Dreams”. La canzone fa già intravedere il futuro glorioso degli Yes all’interno del progressive. Il brano ricorda vagamente “Roundabout”. L’insicurezza interiore e l’ egoismo è il tema della successiva “ The Prophet” . A un organo quasi da chiesa introduttivo si innestano dei violini. Tutti cerchiamo una verità, una certezza nella nostra vita. Qualcosa a cui aggrapparci. E quando troviamo un “nuovo significato”, vediamo le cose da un differente punto di vista. E ci accorgiamo che, nel prendere le cose che ci servono, non bisogna scordarsi di quello che bisogna dare agli altri.
Inizia “Clear Days” e di fronte a me, dove prima c’erano gli alberi, si forma una radura erbosa. La canzone, così soffusa, mi fa assopire tra l’ erba in cui mi sono buttato, pieno di gioia per la libertà ritrovata. Ma con “ Astral Traveller” torno alla realtà. Il ritmo è più vivace. Scorgo una casa in mezzo allo spiazzo verde. Qualcosa mi spinge a visitarla. “Time And A Word”. Nell’unica stanza della casa l’arredo è spartano. Un uomo in una finanziera ottocentesca con una bombetta sul capo, mi da le spalle. Io allora gli chiedo se può darmi da bere, perché tutto quel correre mi ha fatto venir sete. Ma lui non mi risponde, si ostina a far finta che io non ci sia. Rimane fermo e immobile. Ripeto la domanda, ma niente esce dalla bocca dell’uomo. Allora vado dietro di lui e lo costringo a girarsi. Ma scopro che non ha volto: niente bocca, né occhi, né orecchie. Solo un ammasso di carne uniforme. Emetto un urlo spaventoso. Però c’ è qualcosa che non và.
Dall’ uomo sembrano provenire dei borbottii. Ecco cos’è! E’ una canzone: … . There's a time and the time is now and it's right for me, It's right for me, and the time is now. There's a word and the word is love and it's right for me, It's right for me, and the word is love. There's a time and the time is now and it's right for me, It's right for me, and the time is now. There's a word and the word is love and it's right for me, It's right for me, and the word is love… . Sto impazzendo. Non capisco cosa significhi. E grido nuovamente: ”Basta! Tutto ciò non ha alcun senso! Basta!” Ma lui continua a cantare… Mi sveglio grondante di sudore. Il cd è finito. Non riesco a trovare un significato logico a quel sogno. Non ne ha uno. Forse è solo un modo con cui il mio subconscio ha voluto farmi apprezzare questo splendido album, troppo spesso sottovalutato a causa del paragone con i capolavori e con la formazione successiva.
Certo, Peter Banks alla chitarra è piuttosto mediocre e ai tempi avevano ancora l’ingenuità tipica degli hippie. Ma io non sostituirei quell’ingenuità con nient’altro. Rimane una domanda: che cazzo ho fumato per fare un sogno del genere?
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