Ma certo, il discone è già stato recensito una volta, fatto sta che io non posso ascoltare sempre e solo avanguardia, elettronica, free jazz ed ECM (vedo che ‘Chartres’ non v’è piaciuto tanto, un poco vi capisco). Capita allora che qualche giorno fa io sia venuto in possesso per pochi denari di una copia mint del vinile originale di Yessongs, copertina in ottimo stato e dischi intonsi. Non vi dico la gioia, perché siete appassionati come me e la conoscete. Adesso ce l’ho sul piatto spesso e volentieri, anche per confrontarne l’ascolto con la versione digitale, e capite bene che viene proprio voglia di recensire una roba del genere.
Nel 1973 gli Yes erano la sensazione progressive del momento, avendo piazzato tre album (i primi due non contavano) ai vertici del genere per ampiezza della visione musicale, tecnica sbalorditiva ed un bellissimo immaginario futuristico ed ecologico creato per loro dal genio grafico di Roger Dean. Schierando la migliore formazione prog di ogni tempo (ognuno dei musicisti era indiscutibilmente in vetta per il proprio strumento), la band fa rapidamente sfracelli per suggestioni sinfoniche, evoluzioni strumentali, cori celestiali e soprattutto per un piglio rock che altri gruppi in ambito progressive hanno avuto solo a tratti (Genesis, Van Der Graaf, Gentle Giant), ciò dipendendo soprattutto dall’intraprendenza di Steve Howe e Chris Squire.
Il chitarrista è infatti, con la sola ovvia eccezione di Robert Fripp, il solo che in questo genere musicale non sia stato confinato dietro le tastiere, altrove protagoniste assolute (e tra l’altro non è facile stare in linea con Wakeman, diciamolo). L’ascolto dei primi tre dischi di Steve Hackett rivela quanti ottimi spunti siano stati sottratti agli album dei Genesis, e non è colpa di Tony Banks, che per essere un tastierista prog è anche timido, quanto del genere romantico che i cinque prediligevano e che ha sempre limitato fortemente le parti di chitarra. Steve Howe lavora invece moltissimo di chitarra elettrica col suo famoso stile ritmico-solista, e basti ascoltare con attenzione ‘Life Seeker’ (la prima parte di ‘Starship Trooper’) e ditemi se avete mai sentito qualche chitarrista eseguire quegli assoli di arpeggio ed accordi con tanta fluidità (Steve è praticamente sempre in assolo, ma fa anche tutti gli accordi). Aggiungiamo buona capacità di improvvisazione, ed una crescente disinvoltura col genere folk e fingerpicking, ed abbiamo il fuoriclasse assoluto in campo progressive. Quanto a Squire, dotato di tecnica assolutamente sovrabbondante per il rock, il suo strumento è talmente ‘fuori’ – ogni strepitosa linea di basso chiaramente udibile anche nei ‘fortissimo’ della band – da potersi paragonare alla famosa presenza sonora di John Bonham, il tutto mentre Chris fornisce anche i principali contrappunti vocali alla voce angelica ed altissima di Anderson, altro elemento caratterizzante il sound degli Yes. Di Wakeman non vale la pena neppure parlare, essendo notoriamente l'unico pretendente al trono tastieristico insieme ad Emerson, se non per accennare alla foggia assai elfica che egli sceglie di assumere sul palco in quegli anni: capelli lisci biondissimi e lunghissimi, tunica alla Gandalf, aspetto ieratico. Roba da anni Settanta, appunto.
‘Yessongs’ vede la luce proprio nel mezzo di un avvicendamento alle pelli della batteria, ed avrebbe potuto essere davvero un momentaccio per gli Yes, che invece non ne risentono affatto, e vedremo come e perché. Bill Bruford è universalmente noto per essere un mostro di bravura ed è famoso per lo stile secco della propria battuta, suona in punta di bacchetta (in questo è l’esatto opposto del già citato Bonzo) ed è particolarmente adatto per lo stile jazz rock, anche se nel ‘77 andrà a dare egregiamente una mano sul palco ai Genesis di Phil Collins. Nel 1973 Bill ha una diversa percezione del proprio futuro musicale ed accetta la convocazione del Re Cremisi in persona, lasciando gli Yes nei casini, ma la storia del rock gli darà ragione (Larks’ Tongues In Aspic è un capolavoro anche per il particolare lavoro della batteria). Nel bel mezzo del tour di ‘Close To The Edge’ gli Yes devono dunque trovare un sostituto per i concerti americani, e non un sostituto qualsiasi, perché le parti di batteria sono complesse e la band non ha certo abituato i propri fans a far cilecca sul palco. Alan White, che è anche un buon pianista, aveva all’epoca fatto esperienza con gli Air Force di Ginger Baker, con John Lennon e con George Harrison, ed era in tour con Joe Cocker quando viene contattato dagli Yes ormai a ridosso della partenza per gli States. Leggenda e cronologia vogliono che Alan sia stato in grado di imparare a perfezione, in soli tre giorni, le parti di batteria dei tre album di studio, convincendoli così che si potevano rispettare egregiamente gli impegni per i concerti. Il risultato è tutto in questo meraviglioso triplo live: Alan viene preso in prova per tre mesi, ma conta oggi quarantadue anni di militanza ininterrotta negli Yes.
L’album esce alla fine del tour, praticamente a furor di popolo perché s'era sparsa ampiamente voce della mirabilia sul palco, e la band decide di rendere omaggio al contributo di Bruford includendo due performance dal tour di ‘Fragile’ (‘Long Distance Runaround/The Fish’ e ‘Perpetual Change’, quest’ultima corredata da uno dei rari drum solos di Bill). Con l’eccezione di qualche scampolo e bozzetto solista e di ‘South Side Of The Sky’, che pure veniva eseguita (ho i bootleg) e che deve essere rimasta fuori per questioni di spazio, la setlist comprende tutti i brani di ‘Yes Album’, ‘Fragile’ e ‘Close To The Edge’ ed aggiunge la famosa Intro tratta dall’Uccello di Fuoco di Stravinsky (Jon Anderson è un fan del compositore russo: sentite cosa canticchia prima di presentare Rick Wakeman), oltre a tutte le improvvisazioni strumentali che un live degli anni Settanta non può non includere, soprattutto se mastodontico come questo.
Si discute ancora oggi se la resa complessiva delle performance sia superiore o inferiore alle versioni di studio. A favore della superiorità delle versioni live va il sound caldo e trascinante delle esecuzioni sul palco, rispetto a qualche traccia un più freddina negli album in studio (ciò è particolarmente evidente nell’iniziale ‘Siberian Khatru’), mentre per altri brani - ‘Perpetual Change’, Yours Is No Disgrace’ e ‘The Fish’ - è tale il maggior apporto di musica fornito sul palco (cinque/sei minuti di ottime improvvisazioni oltre al famoso, lunghissimo bass solo) da squilibrare nettamente il confronto. Gli Yes suonano meravigliosamente e sono davvero entusiasmanti, riescono non solo a rendere in modo ottimale sul palco le complesse sovraincisioni e gli effetti dei brani in studio ma a fornire loro la tipica eccitazione delle esecuzioni rock, nonostante ci si trovi davanti a vere e proprie sinfonie progressive. Steve Howe e Rick Wakeman si distinguono per le parti solistiche, l’uno fornendo una bella esecuzione per chitarra acustica di ‘Mood For A Day’, l’altro condensando in sei minuti alcuni virtuosissimi spunti dal famoso ‘Six Wives Of Henry VIII’, fresco di stampa ed in procinto di diventare un classico indiscusso del genere. Jon Anderson conferma sul palco la padronanza di una voce davvero ultraterrena, angelica e prodigiosa per timbrica ed ottave, che ha la caratteristica di sembrare esilissima in alcuni passaggi per poi svettare sicura ed acutissima (‘Sharp… Distance’) in una continua ricerca della migliore contrapposizione degli stili, la potenza del rock e l’evanescenza della fiaba, tale da rendere praticamente improponibile un diverso modo di cantare la musica degli Yes (ascolto il pur ottimo ‘Drama’ e mi viene da ridere, si cerca apertamente di ripetere Anderson in un album che pure cambia non poche coordinate nello Yessound).
E Alan White? Il nuovo arrivato si districa abilmente nelle parti complesse, nei cambi di tempo e negli stacchi ‘sospesi’ tipici degli Yes, e risulta (incredibilmente) virtualmente indistinguibile dal nobile predecessore salvo una maggiore presenza rock – uno stile più adatto ai concerti – che farà assai comodo nei lunghi tour a venire. Ciò che invece penalizza il prodotto finale è la qualità delle registrazioni live, non esattamente ottimale, ma all’epoca lo standard delle ‘mobile recordings’ era più o meno quello. Il tentativo di catturare sia i musicisti sul palco che l’atmosfera del concerto dalla parte del pubblico non si avvaleva evidentemente della migliore microfonatura, i mixer da concerto erano assai meno sofisticati e spesso il suono rientrava da tutte le parti, rendendo difficilissimo il bilanciamento e l’equalizzazione del suono finale senza ricorrere al taglio drastico delle frequenze più invadenti. A parte ‘Pictures At An Exhibition’, ‘The Song Remains The Same’ e pochi altri esiti fortunati (i live giapponesi di Miles Davis), quasi tutti i live storici dei Seventies soffrono di una resa sonora inferiore a quella di studio, riuscendo solo episodicamente a restituire la spazialità del suono dal vivo (confrontateli con ‘Travels’ di Pat Metheny, ad esempio. Un mondo di differenza).
Come di prammatica in quel periodo e secondo i gusti correnti, il pubblico si becca senza fischi tutta la magniloquenza e le parti interlocutorie del suono Yes, la conclusione del solo di Wakeman con le sirene o l’intro ‘ambient’ e gli uccellini di Close To The Edge, per esempio: chiunque altro avrebbe iniziato ‘Solid Time Of Change’ con un doppio conteggio in tre quarti e la parte di chitarra, persino gli ELP dal vivo tagliavano il crescendo iniziale di Tarkus. Loro no. La sola ‘And You And I’ viene modificata in un modo tale da renderla a mio parere migliore della versione originale, tagliando l’introduzione di armonici ed arpeggio (che viene comunque ripreso in prosieguo) ed iniziando con l’inserimento del famoso tema di ‘Eclipse’. Anche la sezione folk è resa ottimamente, considerando che l’effettistica per chitarra elettrica all’epoca non consentiva facili cambiamenti repentini al sound della acustica, e confrontate Steve Howe con Paul Stanley, che in ‘Alive II’ nemmeno ci prova ad evitare di iniziare ‘I Want You’ col suono accavallato della elettrica. Steve fa questo e molto altro, amici.
Dato per noto e scontato il valore altissimo delle Yes-composizioni qui catturate in concerto, ultima componente essenziale di questo affascinante triplo vinile è la complessa copertina realizzata da Roger Dean, complice la struttura fisica del package il quale – dovendo contenere tre dischi – offre una notevole superficie gatefold da riempire e decorare secondo il tipico Yes-design. Non si può descrivere più di tanto, bisogna andarsela a vedere in rete, sapendo che i temi grafici proseguono in parte quelli di ‘Fragile‘ e prefigurano la complessità della copertina di ‘Tales From The Topographic Oceans’. Le zolle sospese e gli arditi camminamenti spaziali rappresenteranno comunque da allora in poi un vero e proprio trademark per gli Yes.
La conclusione è che ‘Yessongs’ sia un live strepitoso ed un vero e proprio manifesto del periodo, tra i migliori album live di ogni tempo. Perfettamente bilanciato tra intellettualismi progressive ed entusiasmo rock, offre grandi esecuzioni, e trascinanti (le improvvisazioni di ‘Yours Is No Disgrace’, il finale emozionante di ‘Starship Trooper’), composizioni meravigliose e sfoggio estatico di competenza e virtuosismo strumentale, ed un packaging prezioso e ricercato che ne fa uno degli album più belli di tutta la storia del rock. Ho ascoltato il vinile ormai diverse volte e posso dire che il suono originale era pure migliore delle varie trasposizioni digitali, che hanno spesso il torto di arricchire le frequenze in modo innaturale e niente affatto compenetrato con la pastosità del suono complessivo, ditalché ne risulta sovente una semplice riequalizzazione dei brani, e se ascoltate le stampe 180 gr. sono pure superiori alle frequenze digitali (‘Trans Europe Express’, ad esempio).
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